Twitter

sabato 24 dicembre 2011

SHERLOCK HOLMES - gioco d'ombre

Che esagerazione, Mr. Holmes!



Dopo il successo planetario del primo capitolo, a due anni di distanza esce l'inevitabile sequel di questo adattamento delle opere letterarie di Arthur Conan Doyle.
Robert Downey Jr. e Jude Law tornano rispettivamente nei panni di Sherlock Holmes e del dottor Watson; in cabina di regia rimane l'ex signor Madonna, Guy Ritchie, secondo il detto Hollywoodiano "squadra che incassa non si cambia".
Questo seguito mantiene fondamentalmente  invariate le caratteristiche di base del primo film, andando a spingere più a fondo sul pedale dell'acceleratore, intricando la trama, aumentando le dosi di azione, estremizzando ulteriormente le già spinte caratterizzazioni dei due personaggi principali.

Se a tratti tutto questo fa sembrare il film un passo avanti rispetto al predecessore, a conti fatti sono più i rimpianti per le occasioni sprecate che i reali miglioramenti.


Essendo il secondo capitolo, non starò a sottolineare la miriade di differenze tra l'opera letteraria e quella cinematografica, in tutto un libero adattamento, non certo una fedele trasposizione.
Per questo sequel si è scelto di sfruttare un personaggio importantissimo nell'universo Holmesiano, la sua nemesi, il professor Moriarty (Jared Harris).
La scelta di un villain di tale spessore (letterario) non poteva far altro che comportare una trama più complessa e meno lineare rispetto al primo film, essendo Moriarty un genio criminale con un intelletto addirittura superiore a quello di Holmes.
E in questo il film fa il suo dovere. Fornisce una buona trama di base, la sviluppa e contorce abbastanza bene, e non lascia un senso di banalità o vuoto di storia.


Quello in cui fallisce clamorosamente è lo sviluppo dei personaggi, delle loro motivazioni, dei loro caratteri.
Partendo proprio da Moriarty, il personaggio viene introdotto piuttosto frettolosamente, ma soprattutto non viene approfondito l'aspetto della sua genialità. Risulta in tutto un avversario piuttosto normale; ordisce un piano complesso, ma non eccessivamente, si avvale di trucchi banali per complicare le cose...
Insomma un personaggio che dovrebbe essere iconico risulta...nulla. Assolutamente mediocre, per quanto Harris ci metta impegno e sia piuttosto credibile nel suo ruolo.

Ma anche altri personaggi sono introdotti, tra cui il fratello maggiore di Sherlock Holmes, Mycroft.
Introdotto malissimo, caratterizzato peggio, è a tutti gli effetti un personaggio assolutamente inutile.
Funge da mezzo per raggiungere uno scopo, ma è scritto talmente male da non risultare neanche una macchietta.
Si può dire quasi lo stesso di una zingara francese che accompagnerà i due per buona parte del film, personaggio pressochè nullo dal punto di vista cinematografico, utilizzato (male) ai soli fini della trama.


Holmes e Watson vengono estremizzati in maniera davvero eccessiva, rischiando spesso di cadere nel ridicolo involontario e nel macchiettistico. Il rischio è sventato fortunatamente dall'impegno e dall'indubbia bravura dei due interpreti, ben calati nei personaggi, che riescono a salvare la situazione più volte.
Ma la sceneggiatura di sicuro non li aiuta.

E veniamo a quello che risulta, nel mio personale parere, il problema più grosso del film.
Le scene d'azione.
In questo seguito sono state aumentate in maniera esponenziale sia nel numero che nella dimensione.
Ma sono davvero troppe. Ogni 10/15 minuti ogni idea di trama viene abbandonata in favore di una qualche scena d'azione quasi sempre fine a se stessa, che sia un corpo a corpo con un cosacco, una sparatoria in treno, o una fuga in un bosco.
Inoltre in molte di queste scene viene fatto un uso smodato e decisamente improprio del ralenty, che stanca presto e rende interminabili e visivamente pacchiane le suddette scene.
Il tutto a scapito dell'elemento d'indagine che dovrebbe essere centrale in un film su Sherlock Holmes.
In questo caso il lavoro dell'investigatore si riduce ad un correre tra un luogo e l'altro tentando di ostacolare i piani di Moriarty, ma senza alcun tipo di dilemma. Tutto è già lì, pronto e servito.
Il che non può che essere un male.


Non è tutto da buttare ad ogni modo.
Come film d'intrattenimento funziona, non annoia (quasi) mai, fa passare le sue due ore di durata con relativa rapidità, ma decisamente non è il passo in avanti che ci si poteva aspettare viste le premesse.

Le musiche di Hans Zimmer sono davvero molto buone, ottima ispirazione ed ottima connessione con le immagini. Raffinatissima la citazione al Don Giovanni mozartiano.

Ci sono anche un paio di sequenze davvero azzeccate e d'impatto (aiutate molto dalla musica), ma non riescono decisamente a sollevare il livello del film dalla mediocrità in cui si adagia.

In conclusione, non è un film che consiglierei.
I fan del primo film probabilmente lo apprezzeranno almeno un po', ma sono convinto che anch'essi non potranno non esserne delusi in una qualche misura.
Di sicuro incasserà bene, ma il cinema d'intrattenimento americano ha bisogno di una boccata di ossigeno fresco, e questo film non fa altro che confermarlo


PS: collateralmente, Ritchie riesce ad allestire quella che probabilmente è la più pacchiana scena finale del Don Giovanni che si sia mai vista nella storia.

G.C.


giovedì 22 dicembre 2011

LE IDI DI MARZO

Sono sposato alla campagna, signor governatore




Il ritorno di George Clooney dietro la macchina da presa conferma senza dubbio il fatto che questo ruolo gli si addica ben più di quello di attore.
Adattando una piece teatrale, Clooney mette in scena una storia di illusioni, ideali spezzati, tradimenti che tiene fede al suo titolo.
Raccontando la campagna per le primarie democratiche nello stato dell'Ohio attraverso gli occhi dell'addetto stampa Steven Myers, il film riesce a colpire nel segno, seppur risultando a tratti eccessivamente programmatico.


Fin dalla primissima scena veniamo proiettati nel clima del film, fatto di macchinazioni e trucchi messi in pratica dallo staff di Mike Morris (George Clooney), in corsa per ottenere la nomination democratica alla presidenza degli stati uniti.
Di questo staff fa parte, tra gli elementi di punta, Steven Myers (Ryan Gosling), giovane ma già esperto addetto stampa, disposto a tutto per vincere, purchè "creda nella causa".

Pur peccando leggermente in lentezza nelle prime fasi, il film si prende il suo tempo per descrivere la situazione e far adattare il pubblico allo stile che si terrà lungo la narrazione. Poca azione, molte parole.
D'altronde è un film sulla politica, e cos'è la politica se non parole?
La sceneggiatura riesce in poche battute a descrivere con grande efficacia i personaggi e le loro caratteristiche fondamentali.
In questo è supportata dalla regia asciutta e pulita di Clooney, che dimostra, dopo Good Night and Good Luck, di saper maneggiare molto bene materiale di questo tipo, senza indulgere in virtuosismi o abbellimenti che mal si sarebbero abbinati con una narrazione di tal genere.


Quella che sembra inizialmente nulla più che una normale campagna elettorale, condotta comunque entro certi "limiti", degenera sempre più in uno scambio di colpi sotto la cintura tra le avverse parti, che porterà radicali mutamenti nel modo di vedere le cose da parte dei protagonisti di questa vicenda.
Timonieri che si troveranno in balia della tempesta degli eventi e dovranno lottare per riprendere la rotta.

In queste fasi la regia e la sceneggiatura concorrono molto bene nello sviare l'attenzione degli spettatori da quello che risulterà essere l'evento principe della campagna, portando il pubblico a credere che i fatti fondamentali siano altri.

Le dinamiche politiche sono descritte con grande accuratezza e verosimiglianza, rendendo sempre credibile quello che si vede.
Inoltre le ottime musiche di Alexandre Desplat aggiungono un substrato di tensione che aumenta ulteriormente il coinvolgimento del pubblico nella vicenda.


Tuttavia è impossibile non notare due buchi di sceneggiatura piuttosto grossi. Non ne scriverò perchè risulterebbero anticipazioni importanti sulla trama, ma invito a porre attenzione ad un paio di passaggi che risultano decisamente forzati.
Per carità, in un'ottica puramente cinematografica funziona tutto, ci si può passare sopra e farsi trascinare dal vortice degli eventi, ma riflettendoci, non si può fare a meno di evidenziarne la presenza.

Dal punto di vista tematico il film risulta ambivalente: coraggioso da una parte, programmatico e un po' ruffiano dall'altra.
Il coraggio di sicuro non manca, nel descrivere una disillusione nella politica che, dopo un mandato Obama, si respira negli stati uniti e nel mondo, dopo l'entusiasmo iniziale, e nel mettere in evidenza il potenziale corrosivo del potere, che non lascia immune nessuno.

Ma al contempo è ruffiano nel fare questo.
E' chiaro che, in questo momento, è facile girare un film "antipolitico", è facile fare presa sul pubblico con un messaggio così nettamente negativo.
Non ci si pone il problema di mediare, di mostrare qualcosa di buono, ma si descrive un sistema corrotto e immorale fino al midollo, in grado di sbriciolare ogni tipo di speranza.

Mi sarebbe piaciuta una descrizione più sfumata, meno dicotomica. Ma sono gusti personali.


Le idi di marzo rimane comunque un film più che buono, ben scritto, ben girato, ben interpretato (Gosling sugli scudi, confermandosi probabilmente il miglior attore della sua generazione, ma tutto il cast, composto da alcuni dei migliori caratteristi in attività, è in parte e convincente in ogni frangente.), che consiglio a tutti, con un potenziale grandissimo.
Probabilmente non espresso fino in fondo, ma dopo l'ultima scena, è impossibile rialzarsi dalla poltroncina del cinema senza sentire un piccolo nodo allo stomaco.

G.C.

mercoledì 7 dicembre 2011

MIDNIGHT IN PARIS

Uno sguardo avanti, sognando sempre il passato




Io Woody Allen lo adoro.
Adoro il modo in cui scrive, il modo in cui trasmette le sue insicurezze e nevrosi e le imprime sulla pellicola.
Adoro quel modo tutto suo con cui costruisce le inquadrature, quel suo modo di gestire i dialoghi con estrema naturalezza, quel ritmo che riesce a dare ad ogni conversazione.
Adoro le stranezze nascoste dei suoi film, i piccoli dettagli che rendono grottesco un contesto all'apparenza perfettamente normale.
E adoro soprattutto la sincerità e la trasparenza con cui si racconta attraverso le sue storie.

E tutto questo, in Midnight in Paris, c'è.


Devo ammettere che partivo con qualche perplessità nei confronti di questo suo ultimo lavoro.
In primo luogo perchè nei suoi ultimi film Allen mostrava una certa stanchezza, quasi che fare film fosse per lui diventato un peso, un compitino da svolgere una volta l'anno con puntualità per portare a casa i soldi.
In più, non pensavo che l'idea di uno scrittore che "viaggia nel tempo" passeggiando per Parigi durante la notte fosse particolarmente accattivante.

Beh, mi sbagliavo.
Allen affila le sue armi migliori e si getta con foga in un progetto in cui crede molto, e che evidentemente sente molto dal punto di vista personale.
A partire dal protagonista, uno sceneggiatore ormai stufo di scrivere filmacci Hollywoodiani e che si vuole gettare nella letteratura "seria", Allen mette in campo sè stesso.

Non in prima persona. La costante degli ultimi film del regista americano è la ricerca di un alter ego a cui affidare idealmente il testimone, perchè sia il nuovo Allen nei prossimi film di Allen.
E in questo caso trova in Owen Wilson un eccellente sè stesso.


La trama da la possibilità ad Allen di spaziare con la fantasia in lungo e in largo, andando a sviluppare temi a lui cari e ad affrontare il concetto stesso di "età dell'oro", centrale in questo lavoro.

Subito veniamo messi a contatto con un classico protagonista Alleniano: paranoico, ipocondriaco, stressato, indeciso. Un personaggio che si sente fuori dal suo tempo, fuori dalla società che abita, che sente di appartenere idealmente agli anni '20, la sua età dell'oro.
Addirittura si sente fuori dalla sua stessa vita, che porta avanti quasi per inerzia, non trovando vere motivazioni nè per cambiare, nè per continuare.
Per non farsi mancare nulla, la relazione che porta avanti con una ragazza troppo diversa da lui è ulteriormente peggiorata dai genitori di lei.

La presentazione dei personaggi è puramente Alleniana. Secca, senza fronzoli, costruita tramite rapidi scambi di battute e dialoghi brevi.
Ed è molto efficacie. Immediatamente si riesce ad entrare nell'ambiente del film, l'empatia con il protagonista, Gil, è immediata.

Tuttavia in questa fase si sente una certa pesantezza di fondo, una lentezza che, pur non essendo eccessiva, si sarebbe potuta evitare con qualche taglio in sede di montaggio.

Ma il film deve ancora decollare, e lo farà.


Da quando Gil inizia a "viaggiare nel tempo" passeggiando per Parigi a mezzanotte, Allen si scatena.
Riportato alla sua età dell'oro, gli anni '20 del novecento, Gil entra in contatto con tutte le più grandi personalità artistiche del periodo, da Hemingway a Fitzgerald, passando per Picasso, Dalì e mille altri.

Allen ha così la possibilità di sviluppare un discorso sul destino e al tempo stesso sul compito dell'artista nella società, un discorso sentito profondamente dal regista, che riversa in questo film tutta la sua esperienza e la sua cultura.
Inoltre è libero di forgiare con l'immaginazione questi giganti della cultura mondiale, ricreandoli a partire dalle loro opere, dalle loro biografie, e rendendoli personaggi fortemente caratteristici e caratterizzati.
Personaggi che lungo il film si riveleranno tutt'altro che perfetti, tutt'altro che consapevoli della propria grandezza, eccessivi, improbabili, esilaranti (il Dalì interpretato da Adrien Brody farà storia con la sua apparizione di soli 5 minuti).

Inoltre Allen gestisce il tutto con mano ferma e decisa, tipica del suo cinema. Senza fronzoli porta avanti con coerenza il film, fino alla "morale" e al probabilmente troppo prevedibile finale.


Il film è estremamente raffinato e profondamente colto.
Innumerevoli come ovvio i riferimenti all'ambiente culturale degli anni '20, che necessitano di essere quanto meno conosciuti alla lontana per non trovare il film troppo "esterno" allo spettatore.
Fotograficamente non spicca per originalità, ma riesce a rendere molto bene una vita notturna pulsante nella città delle luci.

Il divertimento non manca, l'intelligenza tantomeno.
Un piccolo appunto al doppiaggio italiano, che credo danneggi pesantemente alcune interpretazioni, su tutte quella di Marion Cotillard, in un ruolo centralissimo e punto di svolta del film
Nonostante non sia decisamente il suo capolavoro (la sua età dell'oro è ormai passata) ancora una volta mi devo trovare a dire "Io Woody Allen lo adoro"


G.C.