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giovedì 31 gennaio 2013

LINCOLN


La schiavitù, signori, è finita.



Lincoln è probabilmente il film a cui Spielberg ha lavorato più tempo in assoluto, fatta eccezione forse per Schindler's List. Il processo creativo si è protratto in molti anni, dalla lettura del libro da cui è tratto, allo sviluppo della giusta sceneggiatura, al casting, alle riprese, all'uscita nelle sale.
La volontà di realizzare questo film era fortissima, il regista americano sentiva con forza l'urgenza di raccontare questa storia, e questo è evidente nel risultato finale.

Potremmo definire facilmente il film come "lezione civile".
In quello che è assolutamente sbagliato definire un film sullo schiavismo, Spielberg mette in scena, in modo quasi accademico, l'iter parlamentare che portò all'approvazione del tredicesimo emendamento, con tutte le sue bassezze, i suoi intoppi, la sua "sporcizia", mostrando come anche ciò che di più alto si è raggiunto, sia il risultato di qualcosa di meno limpido.
In questo, il film è efficace nell'allargare il discorso dal ristretto ambito del congresso ad un palcoscenico più ampio fatto di etica e civiltà, in quella che appunto è una grande lezione per un pubblico senza tempo.


Proprio a causa di questa volontà didattica, il film è impostato completamente sulla parola; per la prima volta in un film di Spielberg il parlato prende il sopravvento sul mostrato, le immagini si mettono da parte, in modo da non "distrarre" lo spettatore e facilitare la concentrazione su ciò che viene detto dai singoli personaggi.
In questa operazione Spielberg si dimostra regista completo e flessibile, in grado di sacrificare le caratteristiche tipiche (o più evidenti) del suo modo di fare cinema, dotato dell'intelligenza, dell'umiltà e della maturità necessarie per piegare il proprio stile al servizio della storia, e non forzare la storia a seguire il suo stile.
Così dominano lunghe inquadrature statiche, un montaggio invisibile e sottile, una composizione quasi pittorica dell'immagine, aiutata dalla fotografia di Kaminski, qui forse al miglior lavoro della propria carriera, che riesce a replicare i dipinti dell'epoca creando l'atmosfera necessaria per la costruzione dell'opera.

E se, come detto, è la parola ciò che conta maggiormente, allora ancor più importanti saranno i veicoli di tale parola, gli attori che danno vita alla densissima (forse fin troppo) sceneggiatura politica di Tony Kushner.
Daniel Day-Lewis è impressionante nel suo diventare Abraham Lincoln, nell'aspetto, nelle posture, nell'atteggiamento fisico e vocale (qui è d'obbligo la visione originale, il doppiaggio danneggia pesantemente il film), nell'umorismo pacato e tutto personale del presidente, dimostra senza ombra di dubbio il perchè sia considerato il miglior attore vivente, e il perchè andrà probabilmente (e meritatamente) a prendersi il terzo oscar in carriera.
Anche i comprimari, Sally Field e David Strathairn su tutti, mettono in scena una bravura indubitabile e una completa comprensione ed immedesimazione nel ruolo, risultando in ogni momento non solo credibili, ma perfetti.
Ma chi veramente sorprende è Tommy Lee Jones: nei panni del deputato Stevens, mette in scena un'interpretazione assoluta, completa, impeccabile, imprevedibilmente riuscita, anche aiutato da una sceneggiatura particolarmente brillante per il suo personaggio, cogliendo una nomination all'oscar non solo meritata, ma anzi dovuta.


E' opportuno sottolineare come questo film riesca ad evitare abilmente i più grandi tranelli che lo attendevano, cioè la retorica e l'agiografia; non solo Lincoln non è mai rappresentato come il presidente perfetto, ma anzi in più occasioni si coglie l'opportunità di sottolinearne le mancanze di uomo politico, i colpi bassi e i compromessi a cui si dovette sottoporre, nonché le sue mancanze dal punto di vista umano.
Ben lungi dall'essere una semi-divinità, l'uomo Lincoln è trattato con una dura correttezza, mettendone in evidenza le mancanze (l'incapacità di relazionarsi con il figlio, la freddezza nel rapporto con la moglie...) e le qualità, l'intelligenza e la furbizia, il cinismo e la sensibilità.
Un personaggio così sfaccettato, soprattutto in un film di Spielberg (notoriamente portato al buonismo e alla glorificazione) sul più amato presidente della storia degli stati uniti, era difficile da immaginare.

La sceneggiatura è quindi uno dei punti di forza del film, insieme alle interpretazioni magnifiche e alla posata e precisa regia.
Tuttavia è un film che rischia fortemente di annoiare: l'impostazione didattica sfocia più volte nel tecnicismo quando non direttamente nel didascalico, la narrazione perde a tratti di vista la sua portata universale ed entra in discorsi troppo legati alla cultura ed alla mentalità politica e sociale degli stati uniti perchè il pubblico del resto del mondo possa esserne coinvolto; è chiaro che Spielberg abbia voluto girare un film SULL'America PER l'America, e personalmente, con la giusta impostazione mentale, l'ho molto apprezzato, ma è bene avvisare che potrebbe per molti risultare indigesto.
Inoltre va segnalato un calo di ritmo, sopportabile ma netto, nella parte centrale del film; se Spielberg avesse avuto la forza di spingere sull'acceleratore in quel frangente come fa poi nel finale, probabilmente ci si potrebbe avvicinare a definirlo il capolavoro personale del regista.


Prima di concludere è bene evidenziare due aspetti importanti dell'opera: l'accompagnamento musicale è un lavoro di sottrazione, quasi minimalista, assolutamente antispettacolare ed interessantissimo nel suo coraggio; laddove si sarebbe potuto infondere alle scene una carica emotiva di grande intensità, Spielberg e Williams decidono di tenere bassi i toni, di limitarsi, servire ancora una volta la sceneggiatura ed il racconto, risultando in un lavoro quasi impercettibile ma molto elegante.
E la scelta ancor più coraggiosa del modo in cui mettere in scena la morte del presidente, per quanto non perfettamente legata al resto dell'opera, evitando qualsiasi espediente retorico o qualunque forzatura drammatica, è encomiabile e da una precisa misura della maturità stilistica messa in mostra da Spielberg nel realizzare questo, sentitissimo, lavoro.

Lincoln è un film inusuale nella filmografia di Spielberg, e consiglio di andarlo a vedere a mente sgombra, senza aspettarsi i tipici stilemi e la tipica costruzione narrativa del regista, perchè quasi completamente assenti.
Ma, forse proprio per questo, abbiamo davanti il più riuscito film dell'autore Spielberg dopo Schindler's List, e questo non è altro che un bene.

G.C.

Lincoln su IMDB

giovedì 24 gennaio 2013

LOOPER

Non voglio parlare di quella merda dei viaggi nel tempo



Il viaggio nel tempo è uno degli argomenti più interessati e affascinanti della narrazione fantascientifica letteraria e cinematografica.
Esso infatti offre, per la sua stessa natura, la possibilità di mettere in scena racconti intelligenti ed appassionanti al tempo stesso, di far lavorare la mente dello spettatore e di stupire continuamente con nuove applicazioni degli innumerevoli paradossi che si ingenerano nella dinamica dei viaggi nel tempo.

Per questo un film come Looper produce negli appassionati del genere un interesse ed un'aspettativa notevole; lo sceneggiatore ed il regista ci pongono davanti ad una sfida: vogliono sorprenderci e fregarci, restando sempre federli alle regole del gioco.
Queste regole si riassumono molto facilmente in un'unica parola: coerenza.
Se nella narrazione manca coerenza, se i paradossi non sono trattati con l'attenzione dovuta, se la vicenda è lasciata andare senza porsi troppi problemi, allora c'è qualcosa che non va, il film non gira come dovrebbe e lascia troppi dubbi e troppe incertezze sparse sul campo


Questo Looper è complessivamente un buon film, ma appartiene un po' troppo alla seconda categoria, a quel gruppo di film che parlano di viaggio nel tempo con il solo intento di lasciare stupito lo spettatore senza preoccuparsi troppo della logica e della coerenza necessarie, e anzi piegandole all'unico fine dell'entertainment e dell'amazement.
Va detto che il film è encomiabile nella pressochè totale assenza di spiegoni e nel suo continuo tentativo di mettere in chiaro che la coerenza non sia ritenuta necessaria oltre il livello minimo, ma questo ovviamente non basta.
Non puoi fare un film che si regge sulle dinamiche teoriche del tempo circolare e poi sperare di risolvere tutto con un "se ci mettiamo a parlare di paradossi non ne usciamo più e ci viene mal di testa" (battuta quasi citata letteralmente, quasi manifesto dell'approccio alla realizzazione di questo film).

Non starò qui ad elencare i tanti problemi di coerenza presenti, ma ciò che ad un'occhiata superficiale può sembrare un meccanismo ben oliato ed anzi piuttosto ben congegnato, non regge ad un'analisi più attenta; tutto crolla come un castello di carte in pochi secondi.
Tutto da buttare, quindi?

No, tutt'altro, il film è un ottimo esempio di intrattenimento intelligente, un film leggero nei contenuti ma ottimamente realizzato, che richiede allo spettatore attenzione e concentrazione per non smarrirsi nelle idee dell'intreccio (per quanto molto, troppo lineare, per un film sui viaggi nel tempo), che non tratta il pubblico come un gruppo di bambini da portare per mano e a cui spiegare tutto per filo e per segno.


Ottima è in generale la scrittura e la costruzione dei personaggi, credibili, completi, abbastanza sfaccettati rispetto alla media del genere di riferimento.
Ottime anche le interpretazioni, da un irriconoscibile Joseph Gordon-Levitt ad un Bruce Willis sempre bravo nell'interpretare un ruolo scritto su misura per lui, gli attori sono in grado di costruire personaggi reali e realmente viventi davanti ai nostri occhi, che consentono l'immedesimazione anche laddove la costruzione della trama correrebbe il rischio di creare grande distacco.

Il prossimo futuro messo in scena convince nella sua forma di anti-futurismo; un futuro che non è altro che un oggi più sporco e degradato, senza principi nè ideali, con un tessuto sociale disgregato e ben poco di nuovo da mostrare. Una rappresentazione coraggiosa, che farà storcere il naso a molti, ma convincerà (ne sono certo) altrettanti.
E complessivamente il film diverte, questo non si può assolutamente negare, che è la cosa più importante, visto che proprio questa era l'ambizione di regista e produzione.


Certo, dispiace che l'approccio alla trama sia stato così grossolano, così superficiale, così privo di ogni ambizione.
Forse è proprio questo il più grosso problema del film, l'accontentarsi, il non osare spingere la propria analisi al di la dell'ostacolo. Pochi dettagli avrebbero reso questo discreto ma grossolano film di fantascienza in un gioiellino per appassionati, e forse tra qualche anno in cult immancabile.

Accontentiamoci, comunque, di un film sicuramente al di sopra della media di genere in attesa che arrivi chi riesca a rispettare le regole e chiudere perfettamente il loop.
G.C.

PS: in realtà una speculazione teorica su un risvolto del finale andrebbe a spiegare alcune incoerenze (alcune davvero troppo grossolane per essere accidentali), ma non ad assolvere sostanzialmente il film dall'accusa di aver violato l'unica regola.


domenica 20 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED

La D è muta, bifolco!



Che Tarantino potesse migliorare ulteriormente se stesso e il proprio cinema dopo Bastardi senza gloria, non l'avrei mai pensato. Ed in effetti ho avuto ragione.
Tarantino non riesce a superare il suo capolavoro del 2008, ma non ne rimane troppo lontano; anche questo Django Unchained è, in modo evidente, l'opera di un genio (a modo suo, ma indubbiamente un genio).

Solo lui infatti avrebbe potuto ideare e realizzare un film del genere, e soprattutto solo lui avrebbe potuto tenere tutto insieme e farne un lavoro sostanzialmente completo e compiuto, con una sua logica narrativa e stilistica.
E solo lui avrebbe potuto pensare ad omaggiare il genere western con un film così poco western e così poco rispettoso nei confronti delle fonti di ispirazione, e pure renderlo un bellissimo e sentitissimo omaggio.
Questo film non è un western, non lo è per niente; è un "Tarantinesco", e lo è al 100%.


La cifra stilistica che permea questo film è inconfondibile, ed è anzi probabilmente ancora più esplicita rispetto ad altri film; in perfetta continuità logica e concettuale con il predecessore Bastardi senza gloria, Django Unchained porta avanti un discorso di provocatorio e irriverente revisionismo storico cui Tarantino pare abbia intenzione di dedicare una trilogia.
Come il predecessore, dunque, il film risponde ad una grande domanda: "cosa sarebbe successo se..." (what if per gli anglofoni); il resto della domanda è costituita da una frase del film: "mi chiedo perchè i neri non ci uccidano".

Nel portare avanti questo interrogativo, Tarantino mette in scena una storia di ricerca e conquista, ispirata (esplicitamente) al Sigfried, senza mettere da parte la sempre presente tensione alla vendetta (quasi sempre sanguinaria).
Lo stile è inconfondibile, praticamente tutto ciò che ci si aspetta da un film di questo regista, c'è.
La costruzione minuziosa dei personaggi, la scrittura chirurgica dei dialoghi, usati quasi sempre come vettore della suspance e della tensione, la pervasiva ironia e il grande divertimento che vuole ispirare con i suoi film.
Anche in questo lavoro si può ravvisare la classica costruzione ad elastico dei dialoghi, tirati avanti il più a lungo possibile, mentre la tensione nello spettatore sale sempre più, fino alla rottura, quando l'elastico si spezza e in scena si scatena un'esplosione di violenza al tempo stesso iper stilizzata nelle centinaia di litri di sangue che appaiono sullo schermo e iper realistica nella sua percezione.


Tarantino conosce la macchina cinematografica e la padroneggia in modo straordinario.
Le sequenze memorabili si sprecano, grazie all'occhio sempre pronto del regista ed alla bellissima fotografia del tre volte premio oscar Robert Richardson.
Ma ciò che Tarantino sa fare meglio di tutti è creare l'inaspettato, trovare l'accostamento a cui nessuno penserebbe, stupire con elementi fuori contesto, fuori logica, quasi privi di senso, e nel riuscire a creare a partire da essi un corpus unico e coerente.
Così la musica, quasi sempre assurdamente illogica (si passa dal classico accompagnamento Morriconiano al rock, al country al rap senza soluzione di continuità), gioca tuttavia un ruolo fondamentale nel creare le sequenze migliori, e contribuisce a creare scene addirittura genuinamente commoventi (su tutte il flashback sulla schiavitù di Django).

E come tutti si aspettano, le interpretazioni sono di livello altissimo.
Partendo dal protagonista Jamie Foxx, proseguendo per il sempre magnifico Christoph Waltz, sul cui personaggio Tarantino si diverte evidentemente moltissimo a giocare, quasi a sfogare tutto ciò che non avrebbe altrimenti una collocazione, tutti gli attori coinvolti sono spinti al massimo delle loro capacità, e anche oltre.
Così non sorprende un Leonardo di Caprio eccezionale nel ritrarre un personaggio viscidissimo e odiabile a dir poco, costruito perfettamente da Tarantino e perfettamente incarnato dall'attore ingiustamente snobbato agli oscar.
E su tutti spadroneggia un Samuel L. Jackson, feticcio del regista americano, che incarna il personaggio più infame e schifoso di tutto il film, ma al tempo stesso uno dei più interessanti e coinvolgenti dal punto di vista concettuale e per il messaggio di cui si fa veicolo.


Laddove il film perde il confronto rispetto al predecessore e agli altri film migliori del regista è il piano del montaggio. Tarantino ci ha sempre abituati ad un montaggio chirurgico, perfetto, senza sbavature, che colloca ogni cosa nel posto giusto al momento giusto, costruendo una narrazione perfetta nei ritmi e negli sviluppi.
Questa volta la situazione sfugge a tratti di mano (forse anche a causa del taglio di mezz'ora di film realizzati un po' all'ultimo momento), mettendo in scena passaggi affrettati e/o non opportunamente sviluppati, dando a tratti una sensazione di inconcludenza abbastanza inusuale.
Su tutto si segnala lo spezzone del Ku Klux Klan, un intermezzo comico dalla grande importanza concettuale (oltre che molto divertente) ma mal amalgamato al resto della scena, cosa che ne castra almeno parzialmente la portata.

Si percepisce inoltre un aspetto inusuale nel cinema Tarantiniano, ossia la mancanza di un personaggio femminile forte, sempre presente prima d'ora ma qui completamente assente.
Si potrebbe spiegare il fatto attraverso l'intenzione di realizzare un racconto western (genere tipicamente misogino) unito ad una grande saga leggendaria (in cui la donna è da salvare e non certo protagonista del racconto), ma è un aspetto di cui si sente la mancanza.

E purtroppo non manca qualche caduta di stile (per quanto limitata); in alcuni momenti non si sfugge al trash, volontario o involontario, che raramente si era visto nei film precedenti.
Fortunatamente questi momenti non sono molti, nè in numero nè in durata.


Nel complesso, è inoltre vero, a questo Django manca l'elemento di innovazione che i nuovi film portano alla filmografia di Tarantino, ma questo non è importante; la continuità logica, la strutturazione di una trilogia narrativo-concettuale è l'obiettivo evidente, e la novità è sacrificata a questo nuovo altare.

E poi diciamocelo, Django Unchained rimane un gran bel film, difficile rimanerne delusi, una volta capito che da nessuno si può pretendere sempre e solo capolavori.

G.C.

venerdì 11 gennaio 2013

LA REGOLA DEL SILENZIO - the company you keep

Questo è tutto ciò che ti è rimasto?


Molti non prendono sul serio Robert Redford come regista; molti pensano che sia solo un attore iconico che si è improvvisato regista senza grandi capacità e senza aver conseguito alcun risultato di rilievo.
Invece Redford si è andato via via manifestando come un abile cineasta, soprattutto con gli ultimi lavori, sempre più  interessato nell'analisi di aspetti ed eventi oscuri della storia e della politica americana.
Quest'ultimo film dunque si va ad inserire in un percorso piuttosto ben delineato, portando avanti un'opera di smitizzazione di quelle forme di retorica propagandista che caratterizzano ed hanno caratterizzato il panorama politico in ogni epoca.

Così, se in Leoni per agnelli la critica era rivolta direttamente e senza mezzi termini alla retorica militarista-patriottica del periodo post 11 settembre, all'idea della guerra giusta, all'idea che l'andare in guerra per il proprio paese sia non solo positivo, ma la massima realizzazione possibile per un uomo che tenga alla propria patria, in questo ultimo film Redford mette in dubbio e critica l'altro fronte dello schieramento, quello della protesta violenta, di tutti quei movimenti che hanno segnato la storia (americana e non) attraverso attentati, omicidi, rapine, mossi dalla volontà di far sentire la propria voce incuranti dei mezzi utilizzati e delle conseguenze delle proprie azioni.


Nel fare ciò l'attore e regista americano mette in piedi un thriller dal passo lento ma inesorabile, che procede senza intoppi dall'inizio alla fine, in cui fin da subito è messa bene in chiaro la linearità degli eventi.
Non bisogna aspettarsi spettacolari colpi di scena, scene d'azione adrenaliniche, trame intricate e continue svolte o ribaltamenti di situazioni; tutto è volto unicamente al raggiungimento dell'obiettivo, cioè il trasmettere il messaggio che interessa al regista.
Si badi tuttavia che non si può mai parlare di un film noioso; il ritmo, per quanto dilatato, è ben gestito, gli eventi sono scanditi dal giusto passo e non si avverte mai alcuna sensazione di pesantezza.
Certo, la mancanza di un lato thriller più intenso si fa sentire, un po' di imprevedibilità sarebbe stata ben accetta, e anzi sarebbe stata probabilmente auspicabile.

Redford è abile nel tenere insieme il film; compatto, diretto, senza fronzoli, la mano del regista è solida, si vede un professionista dietro la macchina da presa, consapevole dei suoi obiettivi e del modo in cui raggiungerli.
E anche il Redford attore, anzi soprattutto il Redford attore, convince, pur senza stupire. Il personaggio è evidentemente modellato sulla propria figura, e l'attore americano lo interpreta con grande naturalezza, come una seconda pelle. E il modo, tutto suo, con cui in 5 minuti di dialogo sbriciola 30 anni di idee politiche, che costituisce il vero motore del film (come già avveniva in Leoni per Agnelli), è l'assoluto punto di forza e la reale bellezza dell'intera opera.


Purtroppo però, il film presenta qualche problema di struttura narrativa che ne ridimensiona la riuscita; si passa da un ottimo thriller con un forte messaggio da comunicare, ad un discreto/buon thriller con un forte messaggio da comunicare.
I problemi sono sostanzialmente legati a tutti i personaggi che ruotano attorno a quello di Redford (l'unico scritto ed approfondito adeguatamente), nonostante siano tutti interpretati da grandi attori indubbiamente tutti  molto in parte, che risultano spesso troppo bidimensionali, e si muovono all'interno di linee narrative troppo prevedibili e senza alcuna svolta che non si sia già vista in un migliaio di film precedenti.

Emblema di questo è il personaggio del giornalista interpretato da Shia LaBeouf, che a conti fatti è praticamente un cliché ambulante; tutto ciò che fa è del tutto scontato, quando va bene, e fuori personaggio quando va male.
Inoltre è necessario sottolineare purtroppo come alcuni aspetti della trama, o meglio, dell'intreccio, non siano stati sviluppati a sufficienza, lasciando alcune questioni in sospeso o poco chiare.


Si capisce che l'intento sia chiaramente, come già ripetuto più volte, arrivare a trasmettere il messaggio voluto, senza soffermarsi troppo a costruire un impianto narrativo all'altezza di tale proponimento.
Purtroppo questo è croce e delizia del film, che non è assolutamente da buttare, anzi, è un film la cui visione consiglierei senza pensarci due volte, ma che si deve vedere consci delle sue limitazioni intrinseche e sapendone cogliere i punti di forza, senza scambiare i due aspetti ed uscire dalla sala con l'amaro in bocca.

G.C.



venerdì 4 gennaio 2013

VITA DI PI

Parlami, dimmi cosa vedi



Vita di Pi è un grande film.
Inutile girarci intorno, scrivere tante parole cercando un modo migliore per iniziare a parlarne; un modo migliore non c'è. Appena le luci della sala si riaccendono, queste sono le parole che salgono alla mente immediatamente, in modo istintivo e naturale.
Dubbi non ne rimangono, e più ci si pensa su, più questa sensazione si fa concreta.
Ang Lee ha fatto centro, ha raccolto una sfida difficile, difficilissima, portare al cinema il romanzo di Yann Martel, più volte definito "inflimabile", e lo ha fatto con grande abilità, sensibilità e coraggio.

Il film è costruito sotto forma di un lungo flashback che occupa la gran parte del film: Pi adulto racconta ad uno scrittore, e conseguentemente agli spettatori, la storia della sua vita, del suo naufragio, e dei 277 giorni passati in mezzo all'oceano con la sola compagnia di una tigre del Bengala di nome Richard Parker.
Ang Lee è abilissimo a costruire la narrazione, a fare sì che l'immedesimazione dello spettatore sia totale, che il pubblico possa credere ed appassionarsi ad una vicenda tanto assurda e tanto esasperatamente caratterizzata da un continuo contrasto tra plausibile ed inverosimile.


Il film vive e si nutre di immagini e sensazioni.
La narrazione, come intuibile, non si basa su una serie di eventi, al di la dell'unico fatto concreto dell'intera trama, ovvero il naufragio della nave, ma più che altro ha lo scopo di immergere il pubblico nel suo protagonista e di fargli provare quello che lui prova, di fargli vedere ciò che lui vede, di farlo stare in ansia e in attesa per la sua sorte, di farlo meravigliare e fantasticare con il giovane Pi, di farlo riflettere. A questo scopo collabora l'interpretazione impeccabile di Suraj Sharma, attore giovane ed esordiente in un ruolo molto complesso, che non solo riesce a reggere l'intero film sulle sue spalle, ma da vita ad un personaggio completo e reale, in modo davvero eccezionale.
Quello che fa Pi, alla fine, non è l'esposizione di una serie di fatti, ma il raccontarci una storia, la sua storia.

In questo senso l'uso che Ang Lee fa dell'immagine è magistrale, un lavoro di altissimo livello. Poetico, visionario, fantasioso, perfetto, il regista taiwanese riesce nell'ardua impresa di raccontare con le immagini ciò che non può essere espresso dalle parole, aiutato in questo da una fotografia molto bella e da effetti speciali di eccezionale livello.
E se questa estetizzazione quasi forzata, questo continuo insistere sulla stilizzazione e sull'immagine in quanto tale può sembrare in alcuni tratti un po' forzata e in un certo qual modo gratuita, ecco che nel finale ci si rende conto che tutto ciò è non solo voluto, ma anzi necessario.

In quel finale viene fornita la chiave di lettura necessaria per reinterpretare tutto quanto visto sotto un nuovo punto di vista, riguardare l'intera vicenda con nuovi occhi e capirne la reale portata, la reale forza sotto quella che poteva sembrare fin lì un bel racconto ma nulla di più.
Grazie a quel finale si riesce ad entrare in un'ottica nuova, e l'intero film viene arricchito di una profondità psicologica che rende tutto ancora più bello, più intenso e più emozionante.


E se è pur vero che il film pecca in didascalismo ed eccessiva programmaticità in alcune fasi, dimenticando l'importanza del non detto, del lasciare che lo spettatore interpreti da sé le informazioni che vengono fornite, che i riferimenti e le istanze religiose appaiono a volte forzati e non ben contestualizzati, e talvolta presti il fianco a cali di ritmo (questi in effetti pochissimi e personalmente  per niente influenti sulla riuscita complessiva), credo sinceramente che sia un film da vedere e rivedere più volte, per godere appieno del bellissimo regalo che Ang Lee ha messo su schermo.

Il mio 2013 cinematografico difficilmente sarebbe potuto iniziare in un modo migliore.

G.C.