Twitter

venerdì 4 gennaio 2013

VITA DI PI

Parlami, dimmi cosa vedi



Vita di Pi è un grande film.
Inutile girarci intorno, scrivere tante parole cercando un modo migliore per iniziare a parlarne; un modo migliore non c'è. Appena le luci della sala si riaccendono, queste sono le parole che salgono alla mente immediatamente, in modo istintivo e naturale.
Dubbi non ne rimangono, e più ci si pensa su, più questa sensazione si fa concreta.
Ang Lee ha fatto centro, ha raccolto una sfida difficile, difficilissima, portare al cinema il romanzo di Yann Martel, più volte definito "inflimabile", e lo ha fatto con grande abilità, sensibilità e coraggio.

Il film è costruito sotto forma di un lungo flashback che occupa la gran parte del film: Pi adulto racconta ad uno scrittore, e conseguentemente agli spettatori, la storia della sua vita, del suo naufragio, e dei 277 giorni passati in mezzo all'oceano con la sola compagnia di una tigre del Bengala di nome Richard Parker.
Ang Lee è abilissimo a costruire la narrazione, a fare sì che l'immedesimazione dello spettatore sia totale, che il pubblico possa credere ed appassionarsi ad una vicenda tanto assurda e tanto esasperatamente caratterizzata da un continuo contrasto tra plausibile ed inverosimile.


Il film vive e si nutre di immagini e sensazioni.
La narrazione, come intuibile, non si basa su una serie di eventi, al di la dell'unico fatto concreto dell'intera trama, ovvero il naufragio della nave, ma più che altro ha lo scopo di immergere il pubblico nel suo protagonista e di fargli provare quello che lui prova, di fargli vedere ciò che lui vede, di farlo stare in ansia e in attesa per la sua sorte, di farlo meravigliare e fantasticare con il giovane Pi, di farlo riflettere. A questo scopo collabora l'interpretazione impeccabile di Suraj Sharma, attore giovane ed esordiente in un ruolo molto complesso, che non solo riesce a reggere l'intero film sulle sue spalle, ma da vita ad un personaggio completo e reale, in modo davvero eccezionale.
Quello che fa Pi, alla fine, non è l'esposizione di una serie di fatti, ma il raccontarci una storia, la sua storia.

In questo senso l'uso che Ang Lee fa dell'immagine è magistrale, un lavoro di altissimo livello. Poetico, visionario, fantasioso, perfetto, il regista taiwanese riesce nell'ardua impresa di raccontare con le immagini ciò che non può essere espresso dalle parole, aiutato in questo da una fotografia molto bella e da effetti speciali di eccezionale livello.
E se questa estetizzazione quasi forzata, questo continuo insistere sulla stilizzazione e sull'immagine in quanto tale può sembrare in alcuni tratti un po' forzata e in un certo qual modo gratuita, ecco che nel finale ci si rende conto che tutto ciò è non solo voluto, ma anzi necessario.

In quel finale viene fornita la chiave di lettura necessaria per reinterpretare tutto quanto visto sotto un nuovo punto di vista, riguardare l'intera vicenda con nuovi occhi e capirne la reale portata, la reale forza sotto quella che poteva sembrare fin lì un bel racconto ma nulla di più.
Grazie a quel finale si riesce ad entrare in un'ottica nuova, e l'intero film viene arricchito di una profondità psicologica che rende tutto ancora più bello, più intenso e più emozionante.


E se è pur vero che il film pecca in didascalismo ed eccessiva programmaticità in alcune fasi, dimenticando l'importanza del non detto, del lasciare che lo spettatore interpreti da sé le informazioni che vengono fornite, che i riferimenti e le istanze religiose appaiono a volte forzati e non ben contestualizzati, e talvolta presti il fianco a cali di ritmo (questi in effetti pochissimi e personalmente  per niente influenti sulla riuscita complessiva), credo sinceramente che sia un film da vedere e rivedere più volte, per godere appieno del bellissimo regalo che Ang Lee ha messo su schermo.

Il mio 2013 cinematografico difficilmente sarebbe potuto iniziare in un modo migliore.

G.C.


Nessun commento:

Posta un commento