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giovedì 20 dicembre 2012

LO HOBBIT - un viaggio inaspettato

Il troppo stroppia, Sir Jackson



Diciamolo subito, l'attesa per questo film era veramente altissima, così come le aspettative.
Il semplice fatto che Peter Jackson, a distanza di 9 anni (e circa 30 kg di peso perso) dalla conclusione della trilogia del Signore degli Anelli, una delle più belle saghe cinematografiche mai realizzate, tornasse all'opera nell'adattamento di un'altra opera di Tolkien e ci riportasse nella terra di mezzo che ci aveva fatto amare, è un motivo ampiamente sufficiente a giustificare tale esaltazione.

Questo ha reso fin da subito il progetto molto complesso e pericoloso. Tralasciando le mille vicissitudini produttive attraversate da questa produzione (che hanno portato alla rinuncia da parte del regista inizialmente designato, Guillermo Del Toro), è evidente come un predecessore di tale livello costituisse un convitato di pietra a dir poco opprimente; difficilmente si sarebbe potuto replicare il livello qualitativo della trilogia dell'anello, difficilmente si sarebbe potuto soddisfare il pubblico e la critica con una tale unanimità ed un tale successo.
Come se questi dubbi non fossero sufficienti, durante la fase finale della produzione è stato deciso che l'adattamento del romanzo sarebbe stato diviso in due film, e infine addirittura in una trilogia.
Come 350 pagine potessero essere adattate in tre film da quasi 3 ore ciascuno[1] in modo soddisfacente e senza dare la sensazione di brodo inutilmente allungato, era uno dei motivi principali di preoccupazione, da parte mia, di fronte a questo progetto, ripeto, tanto atteso.

Dubbi che purtroppo hanno trovato piena conferma nella realtà del prodotto finito.


Lo Hobbit non è un brutto film, questo va immediatamente messo in evidenza, ma è un film che perde troppo facilmente e troppo spesso di vista l'obiettivo, cioè il raccontare una storia nel modo migliore possibile.
E così ci si trova davanti ad un film che non sa esattamente che strada prendere, se puntare sull'epica (poco appropriata al romanzo di partenza) o sulla leggerezza di toni, che non sa se prendersi sul serio o impostarsi su un registro più giocoso, se cercare di replicare i fasti di nove anni fa o reinventarsi da capo.
E sopra a tutto regna incontrastata la ridondanza e l'esagerazione.

Quasi da subito si può intuire che qualcosa non vada nella strada intrapresa: ad un bellissimo prologo che introduce un background di ambientazione all'impresa che muoverà il film, segue un secondo prologo, ambientato nella Contea cronologicamente appena prima del Signore degli Anelli, che risulta di fatto inutile per lo svolgimento della trama.
Il suo unico scopo è autocitarsi e far contenti i fan della trilogia dell'anello facendo tornare sullo schermo il personaggio di Frodo, in un mix di inutilità e puro autocompiacimento francamente disarmanti.

E lungo tutto il film la situazione rimarrà la stessa, un mix estremamente discontinuo di scene riuscite (e alcune molto riuscite) e scene evitabili, mal riuscite, ridondanti, eccessive e a volte noiose; tutto ciò che riguarda Radargast il bruno è un mix di insensatezza e inutilità totali, nulla aggiunge al film, ma funge da puro collante con la trilogia dell'anello, così come tutta la (esteticamente pregevole ma narrativamente inutile e noiosa) sezione ambientata a gran burrone, ancora, un tratto della "riunione" dei nani a casa Baggins rappresenta uno spreco di tempo e produce cali un effetto difficile da sopportare (la canzone del lavaggio piatti con annesso balletto in salsa Disneyana: è...agghiacciante) o tutta la sequenza dei giganti di roccia, puro sfoggio di abilità tecnica e (magnifici) effetti speciali del tutto fini a se stessi.

Scene d'azione tanto ben girate quanto eccessive nel concetto e nella messa in scena (come tutta la sequenza della fuga dei nani dalle caverne degli orchi, tirata avanti all'inverosimile, ben oltre i limiti di sopportazione) non fanno altro che appesantire ulteriormente quello che poteva essere un film fresco, immediato, interessante e appassionante, facendolo scadere spesso in puro polpettone.
Tagli per almeno un'ora avrebbero giovato, e di molto, alla riuscita del film.


Naturalmente gli aspetti positivi ci sono, e non sono trascurabili.
Al di la della sempre grande abilità di Jackson nel manovrare la cinepresa, che in più occasioni da origine a scene di grande impatto, alcune sequenze sono pressochè perfette, come la riunione dei nani a casa Baggins (finchè la sua durata eccessiva non ne spezza irrimediabilmente il ritmo), lo scontro con i tre troll e, soprattutto, l'incontro tra Bilbo e Gollum, la gara di indovinelli nelle tenebre. Scena, quest'ultima, letteralmente da brividi.
Gli effetti speciali poi sono di livello eccezionale, tra le cose migliori viste ultimamente su uno schermo cinematografico.

E Martin Freeman è l'attore perfetto per il ruolo che deve ricoprire. Lui è Bilbo Baggins, non lo interpreta, non sta recitando, ma sta vivendo in quel personaggio. Ogni cosa che fa è non solo completamente credibile, ma assolutamente reale. Faccio fatica a ricordarmi un attore così ben immedesimato in un ruolo fantasy come questo. Un grande Bravo! a Freeman.
In generale, comunque, tutti gli attori sono bravi o molto bravi, niente da dire a questo riguardo.


Sostanzialmente quindi ci troviamo di fronte ad un film che poteva essere eccezionale, ma in cui l'ego di regista e sceneggiatori, l'incapacità di porsi dei limiti (e in questo sicuramente ha pesato il budget triplicato rispetto a quello a disposizione per i tre film del signore degli anelli) e la volontà di mettersi in mostra superano l'istanza narrativa, dando vita ad una giostra impazzita che gira a vuoto a ritmo oscillante, che passa attraverso momenti bellissimi ma nel complesso risulta decisamente deludente.

Ora ci sono altri due film per scoprire se si tratta di un'inciampo momentaneo (come spero) o se, purtroppo, Lo Hobbit sarà una grandissima possibilità sprecata.

G.C.


[1] : "Un viaggio inaspettato" dura 169 minuti, la durata degli altri due capitoli non è ancora stata resa nota.

martedì 13 novembre 2012

ARGO

La mia storiella è l'unica cosa tra voi e una pistola alla testa. 



Non giriamoci intorno più di tanto, andiamo subito al punto.
Argo è uno dei migliori film che abbia visto quest'anno.
Potrebbe essere addirittura il migliore. Perchè è un film denso, intenso, duro e leggero, secco ed aperto al pubblico, un film d'autore che sa intrattenere come solo il grande cinema sa fare, e perchè è una grande, sottile, dichiarazione d'amore verso il cinema.

Ben Affleck (qui regista e attore protagonista) conferma che la sua folgorazione sulla via di damasco della regia cinematografica non è risultata in un fenomeno passeggero, ma invece la scoperta di una vera abilità, di un grande talento che speriamo possa continuare a portare la sua linfa al cinema per gli anni a venire.
I suoi primi due film (Gone baby gone e The Town) sono stati acclamati dalla critica, ed ottimamente recepiti dal pubblico. Con la sua terza opera non solo si conferma, ma compie un netto passo avanti.
Passo, questo, che certifica il suo raggiungimento della piena maturità artistica.


Argo è un film che riesce nell'ardua impresa di raccogliere il testimone del grande cinema degli anni '70, coniugando intrattenimento e profondità con un equilibrio ormai rarissimo.
Profondamente ancorato al suo genere in termini di dinamiche e risvolti narrativi, Argo non cerca mai di strafare; non vuole trascendere, ma vuole interpretare al meglio.

E questo riesce grazie alla sceneggiatura di ferro, abilissima nello sviluppare la trama e nel costruire con poche, secche, pennellate i personaggi.
In questo senso, anche, il film di Affleck si mostra per quello che è, un thriller procedurale in cui più che le psicologie e l'approfondimento dei personaggi, ciò che conta sono le loro interazioni e le azioni che compiono. Senza risultare mai, tuttavia, delle macchiette o dei semplici elementi narrativi senza altro scopo.
La trama è inchiodata ai personaggi, e i personaggi sono inchiodati alla trama. Questo vincolo a due vie risulta fondamentale per la riuscita del film, con l'aggiunta di attori sempre all'altezza del ruolo, sempre in grado di dare il massimo e perfetti per il proprio ruolo (anche lo stesso Affleck, di gran lunga il miglior regista di se stesso).

Sopra a tutto, però, ciò che rende Argo un grande film è la regia.
Affleck mette in mostra una notevolissima padronanza del mezzo cinematografico.
Costruisce una narrazione dal ritmo impeccabile, mai un solo momento fuori tono o fuori dalla chirurgica precisione con cui le sequenze sono costruite. Che il momento richieda un ritmo disteso, che richieda un ritmo frenetico, Affleck è eccellente nel trovare ciò che serve (in questo aiutato da un montaggio sempre perfetto).
Eccezionale in questo la costruzione e la gestione della tensione che vengono messe in mostra nel finale, di grandissima intensità, in grado di tenere incollati alle poltrone con il fiato sospeso fino al termine della sequenza, per poi concedere un rilassamento della tensione tale da far scendere quasi qualche lacrima (come succede all'alto funzionario della CIA all'interno del film).


Basato su una storia vera, Argo ricostruisce alla perfezione l'ambientazione storica (anche se, sulle vicende, predilige sempre lo spettacolo all'inerenza storica, ma non deforma mai la sostanza dei fatti), inizialmente attraverso un'introduzione animata che inquadra la situazione socio-politica in cui la vicenda si va ad ambientare, ed in seguito attraverso un uso della regia, della fotografia e della scenografia di alto livello.

La scena iniziale, post introduzione, è esemplare in questo senso. In pochi secondi ci catapulta in mezzo alla sollevazione popolare Iraniana davanti all'ambasciata americana nel 1979, la camera a mano in mezzo alla folla furiosa che inneggia contro l'ospite indesiderato, la bandiera americana bruciata; immagini potenti, che fanno subito capire che ci si trova davanti ad un film di livello.
La fotografia granulosa, satura, di quelle tipiche delle riprese del periodo. Non ha bisogno di altro per darci un'ambientazione temporale in cui non sarà difficile credere per tutto il resto del film.


E l'amore verso il cinema.
Solo in questo modo può essere letta la volontà di realizzare un film in cui il cinema sia la massima farsa, il massimo inganno, la massima falsità, pieno di difetti, infamie, rancori, ma in cui tutto questo sia ciò che, in fin dei conti, permette di restare in vita.
Il mondo reale che si mescola alla finzione, la finzione che permette di scappare dal mondo reale, letteralmente di liberarsi di un mondo opprimente, che ci da la caccia, ci vuole stanare e colpire.
Una dichiarazione d'amore più bella, Affleck non avrebbe potuto mai metterla in scena.

E allora, concludiamo, ecco perchè questo è il film da vedere, da non perdere a qualunque costo.
"Argo vaffanculo".

G.C.


sabato 10 novembre 2012

COGAN - killing them softly

 Devi essere pronto a fare qualcosa



Un film con molti piani di lettura.
Ecco cos'è il nuovo lavoro di Andrew Dominick, regista poco prolifico ma molto efficace nel trasmettere concetti e sensazioni attraverso le proprie opere, dotato di un talento nella narrazione per immagini che non si esaurisce nel raccontare una storia, ma la arricchisce di significati e suggestioni tali da rendere chiara la presenza di "altro" dietro quella che di fatto è una trama molto semplice e diretta.

Il film vuole raccontare una storia di degrado fisico e morale, malavita, speranze e rassegnazione, all'interno del quale è impossibile non cogliere un'amara riflessione sul mondo moderno, e in particolare sull'America moderna.


Partendo da una struttura da gangster movie di stampo classico, che certamente piacerebbe a Scorsese per gestione del ritmo e gusto nelle inquadrature, il lavoro di Dominick si avvale di una serie di metafore ben pensate e ben sfruttate (nonostante la brevissima durata del film, solo 80 minuti).
I parallelismi al mondo moderno e alla sua struttura gerarchica sono chiari, quasi urlati; i "loro" che controllano e monitorano la situazione senza mai essere visti, lo spietato sicario che fa ciò che deve essere fatto, l'autista che si tappa il naso e fa da tramite dei loro messaggi, i personaggi manovrati come marionette.

I cosiddetti "poteri forti", la politica, i media, il popolo.
E se osservata in questa luce, una vicenda banale assume un interesse inaspettato.
I dialoghi che possono apparire inutili, forzati, monotoni, assumono un senso; ogni personaggio rappresenta qualcosa nella società moderna.
E così nell'ex sicario ora alcolizzato e sessuomane è possibile vedere la politica degenerata, non più in grado di tenere le redini della situazione affogata nei suoi vizi e nella sua deformità.
Nel gestore della lavanderia che ordisce il piano della rapina, è chiaro il parallelo con chi sfrutta il lavoro altrui per fregare il banco ed arricchirsi.

E nel killer interpretato da un sempre più bravo Brad Pitt, è impossibile non vedere la mano del potere politico, che ha ormai perso la sua funzione di appoggio alla gente comune, che è rimasta sola, abbandonata, ma non la sua capacità organizzativa, la sua capacità di prendere decisioni e mettere in atto i suoi piani piani.
Solamente, con l'ultima, durissima, battuta, ci spiega quali sono, oggi, le sole leve che lo fanno muovere.


Dal punto di vista formale, il film è ottimo.
La regia è impeccabile, tanto da riportare alla mente lo Scorsese migliore, quello dei gangster movie. E se pure non raggiunge certi livelli (e ci mancherebbe), la gestione della narrazione è sempre perfettamente controllata e bilanciata, lo stile asciutto, essenziale, la violenza per niente stilizzata, ma diretta, mostrata esplicitamente ma non spettacolarizzata. Una violenza che colpisce e fa male.
In questo è supportato da una fotografia di alto livello, che permea tutto il film di una plumbea depressione che non si esaurisce mai, dando vita a scene dal grande impatto visivo.

Attori bravi, alcuni molto bravi (Pitt, Gandolfini, ma su tutti Jenkins), sebbene il doppiaggio italiano non aiuti su alcuni personaggi.
Graditissima la presenza di Ray Liotta, in un'ottima interpretazione nel ritorno al genere che l'ha reso famoso.


E se è innegabile che il ritmo non sia esattamente una delle caratteristiche migliori di questo titolo, tant'è che il film mostra diversi tempi morti nonostante la breve durata, con dialoghi a tratti eccessivamente prolungati e momenti non sempre del tutto necessari allo svolgimento della trama o alla costruzione dell'atmosfera e delle metafore di cui si è detto sopra, questo non inficia il risultato finale che, almeno nella mia opinione, è un lavoro con qualcosa da dire, una personalità spiccata e in definitiva un buon film, che, in questo momento cinematografico, non andrebbe sprecato.


G.C.







martedì 6 novembre 2012

007 - SKYFALL

...giovane non è sempre garanzia di rinnovamento



Se c'è una cosa che fa davvero piacere, è quando i pregiudizi che si aveva vengono smentiti.
Non sono mai stato un grande fan della saga di 007; ho sempre trovato che fosse costruita da giocattoloni divertenti ma sostanzialmente anonimi, senza una vera personalità nè alcuna ambizione che non fosse quella di staccare il cervello per un paio d'ore e farsi affascinare dallo charme del Bond di turno (fosse l'ottimo Connery o il dimenticabilissimo Brosnan).
Non mi aspettavo quindi moltissimo da questo ultimo episodio, sebbene i nomi coinvolti nel progetto (il regista Sam Mendes in primis) potessero far pensare a qualcosa di più.

Bene, mi sbagliavo.
Perchè se è vero che anche in Skyfall si mantengono ben saldi alcuni aspetti tipici della saga (dall'immancabile elemento action, anche preponderante a tratti, all'umorismo caustico tipicamente british), in questo caso ci troviamo davanti ad un film che finalmente scopre il potenziale dei suoi personaggi e delle sue trame, e decide di sfruttarlo, se non appieno, il più possibile.


Così, all'interno della struttura tipica del blockbuster hollywoodiano, trovano spazio un'analisi dei personaggi e degli eventi assolutamente atipici per un film di questo genere.

Il James Bond incarnato da Daniel Craig è un personaggio assolutamente tridimensionale, sfaccettato, un uomo che si trova a dover trovare nuovamente uno spazio in un mondo che non è più il suo. 
Non è più il tempo delle spie e dell'MI6, il loro lavoro non è più necessario.
Non abbiamo mai visto, in nessuno dei film precedenti, un Bond così fortemente provato dal tempo, un uomo distrutto che sa di dover ricominciare da 0.
E così assistiamo, insieme alla classica missione da compiere, e al classico nemico con cui scontrarsi, ad un percorso interiore che porterà il personaggio a rinnovarsi. Attraverso il suo passato.

Tutto il film è permeato infatti da una costante tensione tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione; in questo senso è emblematica la scena dell'incontro in un museo tra Bond e il nuovo, giovanissimo, Q. 
Da una parte un passato che conosciamo e che sappiamo funzionare, ma che fatica ad adeguarsi alle modifiche del mondo che lo circonda, dall'altra un futuro incerto, pronto, reattivo, flessibile, ma ancora acerbo e pieno di incognite.
E non è quindi un caso che nella conclusione, oltre a trovare un personaggio evidentemente scritto per Sean Connery (peccato abbia rifiutato il ruolo), dopo un viaggio metaforicamente indietro nel tempo il passato venga affrontato, sfruttato, ed infine rimosso, pur se molto dolorosamente, per fare spazio al futuro. 


E tutti i personaggi principali sono costruiti e analizzati nei loro lati oscuri in maniera più che buona, da M, interpretata dall'eccellente Judy Dench, al villain Silva, interpretato da Javier Bardem.
Quest'ultimo, nonostante risulti un diretto derivato del Joker de il cavaliere oscuro, risulta un villain completo e convincente, che sfrutta appieno il tempo che ha sullo schermo per dare vita ad un perfetto esempio di totale ribaltamento della prima impressione (per citare "Come entrare in scena sembrando Malgioglio ed uscirne sembrando Hannibal Lecter").

E se, quindi, dal punto di vista della scrittura abbiamo finalmente uno 007 conscio delle proprie possibilità, dal punto di vista della realizzazione abbiamo un lavoro assolutamente impeccabile.
Mendes è un regista elegante, con grande stile e talento visivo, in grado di infondere all'intera vicenda un sottofondo di malinconia pur tenendo alta la tensione della narrazione e senza perdere mai il filo degli eventi.
La costruzione delle immagini è dominata da assoluta eleganza, grazie anche alla fotografia di Roger Deakins, sostanzialmente il miglior direttore della fotografia in attività.
La collaborazione tra i due autori, nessun dubbio nel definirli così, da origine ad alcuni momenti di inattesa bellezza visiva, come una scazzottata in controluce in un grattacielo di Shangai, in grado di portare svariati momenti, che sarebbero potuti risultare banali, verso qualcosa di nuovo.



Naturalmente non tutto è perfetto.
Nella fase iniziale, dopo l'adrenalinico prologo e gli stupendi titoli di testa, si avverte una certa farraginosità nella trama, che fatica inizialmente a dipanarsi e rischia di incartarsi su se stessa.
Per fortuna il rischio viene sventato, e la narrazione si fa più agile e fluida, ricomponendo tutti i pezzi e non permettendo più all'attenzione di calare e trascinando fino alla definitiva rottura con il passato e all'introduzione al futuro che concludono l'opera.

Gli attori sono tutti ottimi ed in parte, a partire da Daniel Craig, che risulta anche questa volta un eccellente James Bond, duro e deciso ma estremamente umano, fragile, soggetto ad errori e ripensamenti, caratteristiche che vengono trasmesse perfettamente dal volto e soprattutto dagli occhi dell'attore inglese.
I comprimari, anche, non si fanno mancare niente, come detto sopra, da Judy Dench a Javier Bardem, da Ralph Fiennes (nonostante un personaggio sacrificato per scopi futuri) a Ben Whishaw, tutti risultano in parte ed ottimamente scelti per ricoprire i propri ruoli, grandi o piccoli che siano.


In definitiva, ci troviamo di fronte ad un blockbuster atipico, elegante e soprattutto solido; superiore a tutto quanto ci viene sottoposto oggi nel campo dell'action e dell'intrattenimento, non il classico baraccone copia-incolla, ma un film in grado di fornire, pur nel suo ambito di appartenenza, qualche interessante spunto che mi fa pensare che l'imboccare questa strada, a 007 non potrà fare altro che bene,


G.C.





giovedì 20 settembre 2012

PROMETHEUS

Seriamente, Ridley, perchè?!



Iniziamo col dire che scrivere questa recensione costa un notevole sforzo fisico.
Di fronte ad un film del genere il primo istinto è quello di rimuovere, smettere di pensarci, fare finta che non sia successo niente e alla fine dimenticare di averlo visto.
Perciò cercherò di reprimere l'istinto e tirare fuori un discorso logico, coerente e sensato per parlare di quello che, alla fine, risulta un pastrocchio senza logica, senza coerenza, e senza senso.

E dire che le premesse per un ritorno in grande stile di Ridley Scott al genere che l'ha reso grande c'erano tutte. Ritornare sui propri passi riprendendo in mano l'universo di Alien, espandendolo (temporalmente all'indietro) ed andando ad analizzare aspetti solo accennati nel film del '79, ma già allora fonte di grande mistero e grandioso potenziale per una nuova mitologia spaziale.
L'inserimento in un contesto di narrativa fantascientifica delle ipotesi sulla creazione della vita sulla terra da parte di una razza aliena, gli interrogativi filosofici più profondi dell'animo umano, in parole povere la buona fantascienza, erano lì a portata di mano; i riferimenti alla letteratura fantascientifica "alta" sono molti, ed evidenti, da Incontro con Rama al gotico Alle montagne della follia attraversando innumerevoli opere dei più grandi autori, e banalizzandole tutte.
Ed è anche, e forse soprattutto, per questo che la rabbia alla fine del film, la sensazione di vuoto, di essere stati presi in giro, sono ancora più grandi alla fine della visione.


Questo film finisce per rappresentare tutto ciò che di brutto si può avere in un film.
Partendo da ottimi presupposti manda tutto al diavolo con questioni pseudo-archeo-filosofiche che dovrebbero coinvolgere lo spettatore, portarlo dentro il mistero e le domande poste dal film, ma che in sostanza non riescono minimamente a compiere il proprio lavoro; colpa di dialoghi scritti male, forzati, mai credibili (anche per colpa degli attori che non sembrano crederci neanche per un secondo, a partire dalla protagonista Noomi Rapace, escluso il sempre ottimo Michael Fassbender, che reciterebbe benissimo anche in un film di Boldi e De Sica) e di uno svolgimento che non segue alcuna logica, nè narrativa nè espositiva.
Assistiamo a degli eventi che non capiamo (e ci starebbe anche, visto che ci staremmo addentrando in un mistero) e che purtroppo continueremo a non capire per tutta la durata del film, che non riesce a fare altro che accatastare un evento sull'altro senza curarsi minimamente del senso del tutto.

E la rabbia inizia a salire.
Inizia a salire perchè non è così che si fa un film, così si fa la prima puntata di una serie televisiva, che proseguirà poi per altre 40 puntate e che avrà tutto il tempo di sviluppare ambienti, situazioni e personaggi, ma un film fatto in questo modo si risolve nell'inutilità più totale. E non è un caso che la mano dietro tutto ciò sia quella dello sceneggiatore Damon Lindelof, creatore e scrittore della serie tv Lost.
Non si regge sulle proprie gambe nemmeno per un minuto.
E alla rabbia inizia a subentrare l'insofferenza.


E' molto difficile proseguire e aggiungere qualcosa, perchè, realmente, qualcosa da aggiungere non c'è.
Il fatto che sia un film senza senso, logica, e sintesi narrativa sarebbe già sufficiente a stroncarlo senza pietà.
Ma sforziamoci e aggiungiamo qualche elemento: i personaggi sono scritti malissimo. Scienziati professionisti che si comportano come bambini idioti, fanno cose per il gusto di farlo, non seguono nemmeno la più basilare delle regole di buon senso, e soprattutto non ragionano neanche per un minuto su quello che fanno.
Per non parlare di un personaggio che appare per 5 minuti di film senza nessun motivo, senza portare avanti di un centimetro la narrazione, sprecando tempo e fiato nel nulla.

L'empatia è sotto zero, il destino dei personaggi non interessa neanche un po', e alla lunga non interessa più nulla del film, quando inizi a capire che a niente di ciò che ti viene fatto vedere verrà alla fine dato un senso.
E la tensione che il film pareva promettere, è del tutto assente. Non si percepisce nessuna emozione legata alla pellicola, niente. Neanche l'unica (unica!) scena creata per mettere paura riesce a scuotere dall'apatia che ormai è entrata fin dentro le ossa.
Rabbia, insofferenza, e infine rassegnazione.

Rassegnazione quando capisci che non c'è niente da fare, che stai guardando qualcosa di inutile, che dovrai dimenticare il più in fretta possibile e fare finta che non sia mai esistito.
Quanto capisci quanto in basso è precipitato Ridley Scott, un regista che è stato grande e ha fatto grande proprio il genere fantascientifico, e che ora pare prendersene gioco senza rispetto per gli appassionati e per il pubblico pagante, rispondendo a logiche commerciali che cercano di serializzare il più possibile qualunque cosa, che non vogliono mettere alla prova il pubblico nemmeno per un secondo, che non vogliono spingersi neanche un millimetro al di fuori del seminato, e che partoriscono orrori di questo genere (altro che il mostriciattolo della scena del cesareo).


Rabbia, insofferenza, rassegnazione.
3 parole che bastano di gran lunga per descrivere quello che è a tutti gli effetti il film più brutto e inutile dell'anno, e non solo. Aggiungiamo inutilità, e il quadro sarà completo.
In Italia abbiamo aspettato 4 mesi più del resto del mondo per vederlo, a causa di una distribuzione "particolare", e ne ero arrabbiato, era un film che attendevo moltissimo.
Ma a posteriori, dopo la visione, avrebbero anche potuto rimandarlo di 4 anni che non ne avrei dovuto sentire la mancanza.

Il primo film di questo blog "da evitare come la peste".



PS: fotografia, scenografie e uso del 3D sono buoni, quest'ultimo aspetto addirittura molto buono, ma a fronte di un film del genere, non sono minimamente elementi sufficienti per andarlo a vedere.

G.C.
Prometheus su IMDB




domenica 26 agosto 2012

IL CAVALIERE OSCURO - IL RITORNO

La resa dei conti di Gotham


A 7 anni dal suo inizio (Batman Begins, 2005) e 4 dal fortunato, celeberrimo ed esaltatissimo sequel (Il Cavaliere Oscuro, 2008), il regista inglese Christopher Nolan porta a conclusione la saga che ha rilanciato con forza il personaggio di Batman nel panorama cinematografico.
E lo fa con coerenza e decisione, riuscendo a porre fine assai degnamente ad una delle saghe super-eroistiche più personali e originali del panorama attuale.
Il risultato è quello che si può probabilmente definire il miglior Batman a memoria di cinefilo.

Per raggiungere il risultato, paradossalmente, la figura di Batman viene posta in secondo piano, mentre grande importanza viene posta sulla figura del suo alter ego, il miliardario Bruce Wayne, portato attraverso il film lungo un tortuoso percorso fisico e psicologico che lo porterà a compiere la sua missione e a concludere il discorso portato avanti nei primi due film: l'importanza del simbolo come qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che possa superare l'essere umano contingente e servire uno scopo superiore, ispirando il bene negli altri attraverso il proprio esempio.


Il capitolo conclusivo della saga risulta, come il predecessore, piuttosto lontano dal concetto standard di film sui supereroi. Raccoglie invece influenze e suggestioni da diversi generi cinematografici, dando vita ad un ibrido dal non perfetto bilanciamento, ma dall'enorme forza narrativa, caratterizzato da una grande epicità di fondo e da una carica emotiva capace di dare vita al film più emozionante della solitamente piuttosto algida filmografia di Christopher Nolan.

L'ambizione è sicuramente una caratteristica che non manca al regista (e cosceneggiatore) inglese, che mette in scena un film molto coraggioso (all'interno del genere di riferimento), attraversato da un anima corale dall'ampissimo respiro, caricandosi sulle spalle una grossa serie di rischi, decidendo ancora una volta di cambiare direzione, anzichè giocare sul sicuro e realizzare un "Cavaliere Oscuro 2" (e in questo senso è coraggiosa, dal punto di vista commerciale, la decisione di non reinserire il personaggio del Joker).
E se è pur vero che i difetti non mancano, gli aspetti positivi sono tali e tanti da renderli poco significativi e a restituire un senso di soddisfazione pressochè totale all'uscita della sala.

Certo, non per chi si aspetta una copia carbone dello stile e dell'impostazione del predecessore ormai di culto.


Bruce Wayne attraversa un percorso che lo raccoglie psicologicamente distrutto dalla fine del precedente film, e lo porta a confrontarsi definitivamente con i suoi demoni e le sue paure, passando attraverso l'annientamento fisico e psicologico, uccidendo sè stesso e le sue incertezze, le sue paure e sorgendo (rising) a nuova vita per concludere ciò che aveva iniziato, dimostrando che Batman, alla fine, non è altro che un simbolo, un modo per esorcizzare i propri demoni, che non è un essere superiore, un supereroe appunto, ma che può e deve essere soltanto un ispirazione.
Batman non è importante in quanto tale, ma solo in funzione di ciò che rappresenta.

Sopra questa base si va ad articolare un film corale di grande ampiezza spaziale e temporale, con numerosi personaggi e linee di trama che si vanno ad articolare e incrociare, come ormai siamo abituati ad aspettarci dal cinema di Nolan.
E se è indubbio che in questo processo alcune trame non vengano completamente sviluppate, che alcuni passaggi vengano forzati per esigenze narrative, che qualche personaggio non sia approfondito quanto si poteva sperare, è altrettanto vero che il film procede con coerenza e decisione fino al grandioso (e concettualmente inevitabile) finale.


Complessivamente si può parlare di un film di alti e bassi.
L'equilibrio non è la caratteristica principale di questo ultimo lavoro, che alterna picchi e cadute, senza riuscire a stabilizzarsi su un livello costante.
Le cadute sono dovute ad una sceneggiatura scricchiolante, che molto non spiega e che molto abbozza, che non sviluppa situazioni e personaggi al massimo della profondità, alcuni si limita ad abbozzarli, che si perde e si ritrova a convenienza, che ricorre spesso a forzature narrative, che si lascia spaventare dall'ampiezza della narrazione messa in gioco, e che talvolta non risulta all'altezza del compito che si prefigge.
E in questo non è aiutata (mascherata) da un montaggio chirurgico come quello del predecessore; perde il filo della narrazione, da vita a stacchi bruschi perdendo a volte il senso logico della narrazione, lasciando diversi aspetti nell'ombra, senza approfondimento.
Se si pensa che il primo montaggio del film risultava superiore alle 4 ore, è evidente che Nolan abbia tentato di rispondere a spinte produttive ed esigenze di narrazione, non riuscendo a conciliare i due aspetti.

Ma i picchi.
I picchi sono di altezza mai raggiunta nella filmografia di Nolan, sia in termini di costruzione delle scene, sia in termini di contenuto emozionale.
A partire dalla prima ora di film, un picco unico per intensità e livello di contenuti, senza neanche che Batman sia entrato in scena neanche per un secondo.
Per proseguire con scene e sequenze dal grande risultato. E così basta che si intraveda una figura nera sfrecciare nelle tenebre per sentire un brivido lungo la schiena, basta vedere un corpo a corpo brutale e disperato, reso ancora più duro dall'assenza di colonna sonora, basta un uomo che si arrampica su una parete verticale (opportunamente accompagnato da una grande musica questa volta) perchè tutto il resto passi in secondo piano.
E basta seguire Bruce Wayne/Batman attraverso il suo percorso, empatizzare con lui, vedere la coerenza con cui tutti i discorsi aperti si chiudono, respirare l'epica del racconto, cogliere i riferimenti all'attualità e alla letteratura, apprezzare l'ambizione tematica, lasciarsi emozionare per guardare questo film nel modo giusto, lasciar perdere tutto e seguirlo dove ci vuole portare.


Tecnicamente il film è impeccabile.
Nolan migliora molto dal punto di vista registico, mantenendo il proprio stile ma maturando soprattutto nella creazione di immagini forti e iconografiche, dando vita a momenti di grande spettacolarità visiva e di notevole forza comunicativa.
In questo è assistito (per l'ultima volta) dalla fotografia di Wally Pfister, che lavora in modo incredibile, dando vita a quella che è sicuramente la fotografia più ambiziosa e riuscita nel panorama dei blockbuster.

Gli attori sono tutti in parte, ben diretti da Nolan e impegnati nel raggiungimento dello scopo.
A partire da un Christian Bale eccellente nell'espressività e nel lavoro sul corpo, passando per una Anne Hataway sempre splendida nella sua recitazione, nonostante un ruolo un po' sacrificato, per seguire con un Joseph Gordon Levitt alle prese con il personaggio meglio scritto e più riuscito dell'intero film.
Non dimenticando i vari Gary Oldman e Michael Caine sempre eccellenti, in tutti e tre i film della saga.

Nota a parte per Tom Hardy, impegnato nel ruolo del villain di turno, Bane. Se la performance dell'attore inglese non è valutabile interamente, essendo composta per buona parte dalla voce e dalle sue modulazioni, perse nel doppiaggio, il lavoro che ha fatto sul corpo e sulle movenze è straordinario. Dalla calma apparente alla furia animale, tutti i passaggi sono evidenziati dalle sole movenze e dagli occhi dell'attore, terribilmente espressivi.
Il risultato è un villain che, pur non essendo scritto bene quanto il Joker, risulta terribilmente carismatico, potente, pericoloso. Decisamente riuscito.


Se si può trarre una conclusione, potrebbe essere la seguente:
Il film non è perfetto, tutt'altro, è colmo di imperfezioni e problemi, molto maggiori che nel predecessore, qualcuno lo potrebbe definire sgangherato, contorto, confuso, e non avrebbe torto nel farlo.
Ma quanto è vero che non si vive di sola perfezione formale, che spesso sono le emozioni ciò che conta di più, l'empatia, il trasporto emotivo, beh allora questo terzo film vince. Vince perchè imperfetto, vince perchè ambisce a darci qualcosa di più, vince perchè conclude un discorso iniziato 7 anni fa nell'unico modo possibile, vince perchè all'uscita della sala, lo voglio vedere di nuovo.








sabato 21 luglio 2012

THE AMAZING SPIDERMAN

Spero che ti piaccia il branzino!




A ben due mesi dall'ultima recensione, si torna, con un altro film di supereroi. Noioso?
Probabilmente sì (anche considerato il film, che certo non è tra le vette del genere), ma si sa che d'estate i film scarseggiano in maniera quasi imbarazzante qui nel bel paese, e quindi ci si deve accontentare di quel che passa il convento, quando si trova l'occasione per andare a gustarsi un film in sala.

Sembra passato poco tempo dall'ultima incarnazione cinematografica dell'uomo ragno, ed in effetti è così.
5 anni sono passati dalla conclusione (più o meno volontaria) della saga di Sam Raimi, conclusasi con il purtroppo dimenticabile Spiderman 3.
La Sony ha deciso quindi di ricominciare da capo con un film, nuovamente di origini, in cui tutto sia nuovo: cast tecnico e artistico, trama, avversari. Sarà stata una buona scelta?


Iniziamo col dire che sicuramente i difetti del film non sono da imputare al piano tecnico; da quel punto di vista il film è decisamente buono, in linea con i migliori esempi del genere di appartenenza. Effetti speciali ben realizzati e convincenti (forse anche più che nei vecchi episodi, grazie anche ad un largo uso di stuntmen che hanno volteggiato realmente appesi a cavi sopra le strade, limitando il ricorso alla computer grafica), cosa che ormai non può certo più bastare per un film da 200 milioni di dollari, e fotografia interessante;
rispetto ai toni caldi e colorati, molto fumettosi, della saga Raimiana, qui ci troviamo di fronte ad una fotografia più urbana, fredda e fortemente giocata sui contrasti e sulle ombre.
Approccio molto diverso ma che alla fine si rivela anch'esso efficacie e ben gestito, senza dare l'impressione di già visto o di piatto.

La regia merita un capitolo a parte per via della schizofrenia da cui sembra essere affetto il regista Marc Webb (al suo secondo film assoluto, primo in un genere ricco d'azione).
Laddove il regista sicuramente si trova a suo agio è nelle scene di dialogo e ambientazione, laddove sia necessario presentare e/o gestire il comportamento dei personaggi la regia è buona, senza eccellere o stupire, ma senza grosse cadute di stile o perdite del filo del discorso.
E se nelle scene d'azione si nota l'inesperienza da cui è affetto, mettendo in scena una regia migliorabile (è un film di Spiderman diamine, l'azione deve essere di alto livello!), pur senza mai fare grossi danni e senza rovinare sostanzialmente nessuna scena, laddove avvengono i disastri sono le scene di raccordo tra un evento e l'altro.
La narrazione procede senza che il regista sia in grado di dare un ritmo univoco al film, dando la continua sensazione che anche lui fatichi a trovare il bandolo della matassa.
Gli eventi si susseguono senza che siano sufficientemente evidenziate le correlazioni logiche tra gli uni e gli altri, senza quella fluidità e scorrevolezza logico/narrativa che si dovrebbe sempre avere in un film.

E questo è senz'altro colpa del regista. Ma non solo, e probabilmente non soprattutto


I più grossi problemi del film sono sicuramente imputabili alla sceneggiatura e al montaggio.
La prima è vittima di un approccio a tratti superficiale che finisce per impoverire il film da qualunque possibile risvolto drammatico e da qualunque colpo di scena. I personaggi, per quanto ben sviluppati, seguono un percorso di crescita psicologica troppo lineare e scontato, senza idee originali. Tutto sa un po' di già visto.
E la trama è portata avanti con una semplicità a tratti davvero eccessiva.
Nessun risvolto narrativo coglie di sorpresa, avviene sempre tutto ciò che si può prevedere in quanto già avvenuto in diversi film precedenti.
Il senso di deja-vu è forte, anche se paradossalmente non con i precedenti film sul personaggio, ma con altri.
Chiaramente, come nella quasi totalità dei blockbuster estivi americani, anche qui il buonismo si spreca, così come le scene eccessivamente caricate di buoni sentimenti e "vogliamoci tutti molto bene" (la scena delle gru è terrificante in questo senso).
Inoltre va sottolineata la presenza di una serie di buchi narrativi importanti e insensatezze logiche piuttosto consistenti.

Il montaggio è purtroppo stato afflitto da scelte scellerate da parte della produzione, che generano una serie di buchi narrativi di cui si è parlato in precedenza riferendoci alla regia. Questo è stato dovuto al fatto che la Sony, consapevole del sicuro successo commerciale, ha deciso di creare dei misteri all'interno di questo film, per poter dare una linea narrativa di congiunzione con il sequel.
Il problema è che questo processo è stato fatto "ex post", tagliando scene previste in fase di sceneggiatura e addirittura girate in fase di produzione, e non, come avrebbero dovuto, prevedendo la cosa già in fase di scrittura.
è evidente come un processo del genere finisca per generare i problemi a cui prima si è accennato


Per fortuna, oltre alla componente tecnica, a convincere molto sono anche gli attori.
Dal nuovo Peter Parker, Andrew Garfield, che convince decisamente di più del vecchio interprete (Tobey McGuire) e si cala molto bene nel personaggio, passando per la sua fiamma Gwen Stacy (Emma Stone) davvero molto brava ed in parte, fino ad arrivare ai villain e ai comprimari (tra cui spicca sicuramente lo zio Ben interpretato dal grandissimo Martin Sheen). In questo ambito, il film non presenta alcun aspetto criticabile.

Colonna sonora più che accettabile, per quanto non certo un capolavoro, ma che ci restituisce un James Horner di buon livello dopo il terribile lavoro di auto-riciclaggio clamoroso svolto sul film dei record, Avatar.

In conclusione, se certamente si può dire che da questo reboot delle avventure dell'uomo ragno ci si sarebbe potuti aspettare certamente di più, bisogna dire che il film rimane piuttosto godibile e finisce per non annoiare, soprattutto un pubblico non mosso da grosse pretese ma in cerca di un po' di divertimento in una sala cinematografica.
Lo si promuove, con riserva. Speriamo che nel sequel aggiustino il tiro e ci diano un film che possa mettere tutti d'accordo.

G.C.

The amazing spiderman su IMDB


venerdì 4 maggio 2012

THE AVENGERS

Supereroi a New York? Ma fatemi il piacere!




Dopo la bellezza di 3 mesi, un'eternità davvero, riesco finalmente a tornare al cinema e di conseguenza a resuscitare questo blog ormai ad un passo dallo stato di coma irreversibile.

Attraversando un percorso lungo e spesso (molto spesso) travagliato, costituito da prodotti di qualità altalenante (dal più che buon Iron Man al pessimo Captain America - Il primo vendicatore) i Marvel Studios, appendice cinematografica dell'omonima casa editrice di fumetti americana, cercano di portare a compimento un 'impresa mai tentata in campo filmico: riunire in un unico film i principali supereroi del proprio arsenale, presentati uno ad uno in film dedicati e tra loro apparentemente separati.
Inutile dire che, se già i film tratti da fumetti presentano dei rischi notevoli (in cui i Marvel Studios sono caduti più di una volta) un prodotto del genere li presenta ancora tutti, ma elevati all'ennesima potenza.

Diciamo subito che, tenuto conto del genere di riferimento (e rimuovendo da esso i film dedicati a Batman diretti da Christopher Nolan), in questo caso il risultato è tutt'altro che disprezzabile.


Diciamo subito che la riuscita o meno di questo lavoro è da valutare in funzione del suo genere di riferimento: il cinefumetto nella sua declinazione più votata all'azione e all'intrattenimento. Non c'è nessuna ambizione ad essere "altro", nessuna ricerca dell'inaspettato, nessun volersi distaccare dai canoni del genere.
Ma proprio in questo suo stringente inquadramento il prodotto è abile a districarsi, a far sue le esperienze del passato e a sfruttare al meglio le sue potenzialità, raccogliendo ciò che di positivo sinora si era visto e limitando al minimo i tradizionali difetti del genere.

Così, se da una parte il regista e sceneggiatore Joss Whedon ci propone una trama ultraclassica e in nulla innovativa, dall'altra è abilissimo nel gestire i (difficili) rapporti tra gli elementi del gruppo, creando una buona dinamica interna, con dialoghi ben scritti, brillanti, che mettono in mostra piuttosto bene le personalità dei singoli personaggi e i conflitti inevitabili tra gli stessi.
Sebbene si stia parlando fondamentalmente di un giocattolone d'azione multimilionario, la sceneggiatura è attenta ai personaggi quanto serve, riuscendo a dedicare a ciascuno di loro un piccolo momento di approfondimento psicologico, che, suppure non si stia parlando di chissà quali picchi di qualità, non va mai dato per scontato e che, negli ultimi tempi, è manna dal cielo per questo genere cinematografico (la saga di Transformers insegna, in questo senso, in negativo).

Con un villain di buon livello (un sempre bravo Tom Hiddlestone, nei panni di Loki) l'idea del supergruppo viene giustificata da una minaccia credibile e ben congegnata, dando al tutto un livello di coinvolgimento che non cala mai sotto al livello di guardia.


Ma cosa sarebbe un film d'azione e di supereroi se non ci fossero scazzottate, scontri epici, super effetti speciali? Anche in questo ambito The Avengers non delude, mettendo in mostra una serie di scene d'azione di buon livello, ben gestite sia dal punto di vista della regia sia (più sorprendente) dal punto di vista del montaggio, mai eccessivamente frenetico, dinamico ma non ipercinetico, che lascia sempre la possibilità allo spettatore di distinguere l'azione che si sta svolgendo in scena, senza mai risultare confuso.
Inoltre non si può non sottolineare un bel piano sequenza in cui tutti gli eroi sono mostrati in azione in un'unica sequenza, che molto deve al media fumettistico, trasposto anche in questo in modo più che degno.

Non manca l'ironia, anzi, il prodotto conosce i propri limiti, conosce la propria natura e non si prende mai troppo sul serio, trovando sempre l'occasione (sia una battuta sagace di Tony Stark/Iron Man, sia un esilarante perstaggio ad opera di Hulk) per strappare una risata o un sorriso al pubblico.
C'è da dire che, se è vero che questo tono di leggerezza è ben dosato e molto positivo per il risultato finale del film, porta con se un difetto, rappresentato dalla mancanza di una vera e propria tensione nei confronti degli eventi; sappiamo sempre che, in un modo o nell'altro, i nostri eroi se la caveranno e ne usciranno non solo intatti, ma anche con una qualche battuta che ci farà in ogni caso sempre molto ridere.
Di per sè non è una cosa negativa, ma una maggior suspance, una maggior sensazione di precarietà sulle sorti dei vari scontri e dei vari eventi, avrebbe arricchito sicuramente il prodotto.


Gli effetti speciali, non c'è neanche da dirlo, sono di ottimo livello, sullo schermo si vedono tutti i 200 milioni di dollari spesi, gli elementi computerizzati sono ottimamente fusi con le riprese reali ed il tutto risulta molto efficace dal punto di vista visivo.
Certo, una fotografia più curata, dal sapore un po' meno televisivo, non avrebbe guastato, ma ci si può tutto sommato accontentare.

Un capitolo a parte lo merita la figura di Hulk. Il golia verde è uno dei personaggi centrali del gruppo Marvel, ed uno di quelli dalla storia cinematografica più travagliata.
In questo film viene recuperato e inserito nel gruppo degli eroi in modo un po' forzato e con una serie di stratagemmi  poco esplicitati e che lasciano un po' l'amaro in bocca per il modo in cui alcune questioni centrali siano state soltanto accennate e non approfondite.
Così nello stesso film passiamo da una splendida inquadratura dell'occhio disperato del dottor Banner che vorrebbe ma ormai non può più controllare la trasformazione nel mostro verde Hulk, ad un golia verde trasformato in un elemento comico (per carità, riuscito) che non si abbina al meglio con ciò che dovrebbe essere tale figura.
Tecnicamente, anche qui, non c'è neanche da dire che è realizzato estremamente bene.


In conclusione, questo The Avengers, oltre ad essere il miglior film finora uscito dai Marvel Studios, si rivela in generale un prodotto piuttosto buono, divertente, ben girato e ben realizzato, che raggiunge in pieno il suo obiettivo di intrattenere senza pretese.
Quando si avesse voglia di rilassarsi un paio d'ore con un bel blockbuster americano, senza impegnare il cervello più del dovuto (ma senza spegnerlo completamente) questo film potrebbe rivelarsi la scelta giusta.

G.C.

martedì 31 gennaio 2012

L'ARTE DI VINCERE - moneyball

Come si fa a non essere sentimentali con il baseball?




Prendete un Dio e un Semidio della sceneggiatura, una storia di sconfitta e rivincita di quelle con cui ci piace tanto commuoverci, aggiungete un paio di bravi attori che credono in quello che fanno, una spruzzata di regia accademica, mescolate con attenzione e quello che otterrete sarà questo Moneyball (orribilmente tradotto in italiano con L'arte di vincere).

Cominciamo subito col dire che di sicuro questo film non è niente di nuovo. Ripropone stilemi e tematiche tipiche del suo genere di appartenenza (si colloca nell'enorme filone dei film sportivi) senza particolare interesse nel creare qualcosa di innovativo o di stabilire nuovi canoni.
Ciò che invece si preoccupa di fare è di raccontare una storia. E lo fa indubbiamente bene.


Una gran parte del merito per il fatto che questo film funzioni è sicuramente da attribuirsi alla sceneggiatura.
Da due scrittori come Aaron Sorkin e Steven Zaillian non ci si può aspettare niente di meno che un mix riuscitissimo di azioni e dialoghi, ironia e introspezione, intelligenza e sapiente gestione dei personaggi.
Tutte caratteristiche che in Moneyball ritroviamo.
Pur muovendo da un soggetto decisamente poco appassionante (il general manager di una squadra di major league di baseball, avendo grossi problemi di budget, decide di assemblare la sua squadra secondo le idee matematico-statistiche suggeritegli da un giovane neolaureato), i due riescono a mettere insieme una narrazione pulita e accattivante, che non si incarta mai su se stessa, che non cade mai nell'errore di essere troppo esplicita o sadicamente troppo criptica.
Tutto ciò che serve è lì, in termini di caratterizzazioni e rapporti dei personaggi, sviluppo della trama, gestione del ritmo e percorso narrativo.
Quando hai in mano una sceneggiatura del genere, è piuttosto difficile che il film possa uscirne male.

A trasporre in immagini le loro parole, troviamo un regista tutto sommato bravo, che opta per uno stile classico e posato, senza guizzi nè visivi nè immaginifici particolari.
Certamente gli va dato atto di riuscire a gestire correttamente il ritmo, riuscendo a far passare le 2 ore e 15 minuti di durata senza che le si percepisca.
Dall'altro lato, si può considerare che indubbiamente, mettendo in mano il tutto ad un regista più personale, che imponesse uno stile netto e distinguibile dalla massa, l'opera non avrebbe potuto che beneficiarne.

Senza dubbio un lavoro di mestiere quello di Bennet Miller, ma che non riesce a spiccare e a far fare al film quel salto di qualità che il lavoro di scrittura aveva abilmente preparato, seppur supportato dall'ottima fotografia di Wally Pfister, che gioca abilmente su spazi in luce ed in ombra per conferire dinamicità e tener viva l'attenzione visiva degli spettatori in ogni situazione.


I due protagonisti, Brad Pitt e Jonah Hill, sono entrambi molto efficaci, si vede che si trovano bene con il materiale che devono recitare, sono due ottime scelte di casting, entrambi fisicamente molto adatti al ruolo.
Entrambi si sono guadagnati una nomination all'oscar per le interpretazioni date in questo film.
Se per Pitt la nomina sembra adeguata (sebbene abbia fatto di meglio, anche solo quest'anno), per Hill appare un po' esagerata, dovuta soprattutto al buon apprezzamento che il film ha avuto negli USA piuttosto che ai reali meriti dell'attore, che pure, ripeto, da vita ad una prova di buon livello.

Sebbene classificabile entro i margini classici del film sportivo, qualche atipicità si fa notare; in primo luogo la scarsa quantità di scene di sport. Il baseball non viene mostrato molto spesso, il gioco è poco presente in scena, ma si svolge costantemente fuori campo, e ne vediamo soprattutto le conseguenze sulla vita dei personaggi. In questo senso è stato fatto un ottimo lavoro di parallelismo tra il pubblico e il personaggio di Pitt che, scaramanticamente, non guarda mai le partite, ma le ascolta o le vede alla televisione solo a tratti.
D'altro canto, le poche scene di sport presenti, sono girate in un modo estremamente classico, quasi non si volesse perdere tempo a mettere in scena qualche idea nuova: inquadrature sul tabellone del punteggio, primi  piani, ralenty e chi più ne ha più ne metta.


Altra atipicità è il posizionamento del "lieto fine": non è alla fine del film, ma a circa 30 minuti dalla stessa. Perchè per una volta si decide di raccontare una storia vera non tralasciando nulla, non arrestandosi laddove il pubblico si possa ritenere soddisfatto e commosso, concludendo in gloria, ma si va a sviluppare anche gli eventi successivi, che spesso, come in questo caso, non hanno su di sè impresso il marchio della gloria, ma quello della sconfitta.

Che poi la sconfitta non sia sempre da interpretare come tale, sta allo spettatore deciderlo, se questa squadra e la filosofia da essa messa in campo siano vincenti o perdenti, sta alla sensibilità di ciascuno.
Ed è questo su tutto a rendere quello che poteva essere un film classicissimo e stravisto un film nuovo e degno di essere guardato.

G.C.

mercoledì 4 gennaio 2012

J. EDGAR

Occasione persa. Peccato Clint




Per questo suo ultimo film, Clint Eastwood, alla tenera età di 81 anni, decide di affrontare e raccontare uno dei personaggi più controversi della storia americana: J.Edgar Hoover.

Affidando il ruolo a Leonardo Di Caprio, Eastwood porta avanti una narrazione di stampo classico, che alterna momenti ambientati negli ultimi anni della vita di Hoover con flashback che raccontano ciò che egli ha fatto, cercando al contempo di fare un quadro su chi egli fosse.
Nel fare questo mette in mostra alcune delle migliori caratteristiche del suo cinema; purtroppo, tuttavia, non riesce a sfuggire ad alcune cadute di stile (più o meno evidenti e gravi, a seconda della sensibilità personale dello spettatore) e piccoli problemi che lasciano dell'amaro in bocca e fanno pensare al capolavoro che sarebbe potuto essere, ma che non è stato.


Come per tutti i film di Clint Eastwood non c'è veramente molto da dire.
Il suo cinema è estremamente sintetico, asciutto, senza fronzoli. Sembra guardarti e dirti "se vuoi ascoltarmi, stai seduto, altrimenti alzati e vattene, non piangerò per te".
E anche in questo film la caratteristica di base viene mantenuta. Senza un minimo di introduzione veniamo gettati all'interno del racconto, sentiamo la voce di Hoover raccontare, vediamo le cose succedere.
Inizialmente non capiamo bene.
Ma la matassa è rapida nel dipanarsi e nel saltare avanti e indietro nel tempo, tratteggiando un personaggio complesso e sfaccettato.

Scritto molto bene, Hoover ci viene mostrato attraverso il suo punto di vista, con un espediente narrativo tanto abusato quanto efficacie, e del suo carattere ci viene mostrato tutto. Scopriamo così un uomo ossessionato, condizionato dalla società, dalle aspettative di una madre opprimente, ad essere qualcosa che nemmeno lui conosce e forse che nemmeno lui vorrebbe essere.
E al contempo Eastwood è abile nel mostrare ed evidenziare le contraddizioni del suo protagonista. Laddove ci viene mostrata umanità, subito essa viene repressa e cancellata dal lavoro, dalle responsabilità.
Così esce un personaggio con cui è sicuramente difficile empatizzare, ma costruito a dovere e sicuramente credibile.


A questo contribuisce Leonardo Di Caprio che, sebbene non fosse la scelta migliore per il ruolo dal punto di vista estetico, fornisce una performance credibile sia nei panni del giovane Hoover che sotto il pesante make-up invecchiante. Certo, l'attore è consapevole del potenziale ruolo "da oscar" che sta affrontando, e talvolta cade in eccessi che sarebbe stato meglio non vedere, ma la performance è sicuramente di buon livello.
Nota di demerito al doppiatore italiano, che non riesce ad interpretare credibilmente il vecchio Hoover, andando a sovraccaricare la performance con una voce eccessivamente impostata.

Le interpretazioni sono tutte di buon livello. Spicca quella di Naomi Watts nei panni di Helen Gandy, segretaria personale di Hoover per quasi tutti gli anni della sua presidenza all'FBI.
Bravo anche Armie Hammer nei panni di Clyde Tolson, braccio destro e presunto amante del protagonista.

Dal punto di vista storico/politico, il film è impeccabile. Hoover viene mostrato per quello che era, un abile giocatore sulla scacchiera del potere, che sapeva sfruttare il suo Bureau per ottenere ciò che voleva, un uomo che non si lasciava sicuramente spaventare o mettere sotto da nessuno, presidenti compresi.
E il crollo del suo potere nell'ultimo periodo della sua vita è dipinto in modo eccellente, attraverso un dialogo con Nixon che non ci viene mostrato, ma i cui effetti si fanno vedere in maniera netta ed efficacie.


Uno degli aspetti più delicati di questo personaggio è sicuramente la sua tanto chiaccherata omosessualità repressa.
In questo ambito il film offre al tempo stesso le cose migliori e peggiori dal punto di vista della costruzione delle scene.
Perchè se da una parte Eastwood mette in campo tutta la sua abilità nel gestire l'identità sessuale di un personaggio represso e "negazionista" come Hoover, dall'altra sfasa clamorosamente mostrano un Clyde Tolson assolutamente fuori dalle righe ed eccessivo per il contesto in cui vive e si muove.

E ancora se mostra un tocco geniale nel rendere quella che poteva essere la scena WTF del film come la reazione naturale di un personaggio del genere in un momento di profonda crisi e disperazione personale, dall'altra non sfugge al ridicolo involontario in una sorta di dichiarazione di amore omosessuale senile assolutamente fuori luogo.

In questo ha le sue colpe anche la sceneggiatura, che di sicuro non si sforza troppo di sfumare alcuni aspetti, spesso facendosi prendere la mano e preferendo mostrare tutto, anche laddove sicuramente un non detto sarebbe stato più efficacie.


Se per i problemi a cui accennavo sopra il film di sicuro non può essere considerato un capolavoro, nè di certo tra le vette del cinema Eastwoodiano, bisogna dire che il materiale c'è.
Sicuramente è un prodotto che vale la pena vedere se si è estimatori del regista, o se si vuole approfondire quello che di sicuro è stato uno dei personaggi più importanti dell'ultimo secolo di storia americana.

G.C.