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sabato 24 dicembre 2011

SHERLOCK HOLMES - gioco d'ombre

Che esagerazione, Mr. Holmes!



Dopo il successo planetario del primo capitolo, a due anni di distanza esce l'inevitabile sequel di questo adattamento delle opere letterarie di Arthur Conan Doyle.
Robert Downey Jr. e Jude Law tornano rispettivamente nei panni di Sherlock Holmes e del dottor Watson; in cabina di regia rimane l'ex signor Madonna, Guy Ritchie, secondo il detto Hollywoodiano "squadra che incassa non si cambia".
Questo seguito mantiene fondamentalmente  invariate le caratteristiche di base del primo film, andando a spingere più a fondo sul pedale dell'acceleratore, intricando la trama, aumentando le dosi di azione, estremizzando ulteriormente le già spinte caratterizzazioni dei due personaggi principali.

Se a tratti tutto questo fa sembrare il film un passo avanti rispetto al predecessore, a conti fatti sono più i rimpianti per le occasioni sprecate che i reali miglioramenti.


Essendo il secondo capitolo, non starò a sottolineare la miriade di differenze tra l'opera letteraria e quella cinematografica, in tutto un libero adattamento, non certo una fedele trasposizione.
Per questo sequel si è scelto di sfruttare un personaggio importantissimo nell'universo Holmesiano, la sua nemesi, il professor Moriarty (Jared Harris).
La scelta di un villain di tale spessore (letterario) non poteva far altro che comportare una trama più complessa e meno lineare rispetto al primo film, essendo Moriarty un genio criminale con un intelletto addirittura superiore a quello di Holmes.
E in questo il film fa il suo dovere. Fornisce una buona trama di base, la sviluppa e contorce abbastanza bene, e non lascia un senso di banalità o vuoto di storia.


Quello in cui fallisce clamorosamente è lo sviluppo dei personaggi, delle loro motivazioni, dei loro caratteri.
Partendo proprio da Moriarty, il personaggio viene introdotto piuttosto frettolosamente, ma soprattutto non viene approfondito l'aspetto della sua genialità. Risulta in tutto un avversario piuttosto normale; ordisce un piano complesso, ma non eccessivamente, si avvale di trucchi banali per complicare le cose...
Insomma un personaggio che dovrebbe essere iconico risulta...nulla. Assolutamente mediocre, per quanto Harris ci metta impegno e sia piuttosto credibile nel suo ruolo.

Ma anche altri personaggi sono introdotti, tra cui il fratello maggiore di Sherlock Holmes, Mycroft.
Introdotto malissimo, caratterizzato peggio, è a tutti gli effetti un personaggio assolutamente inutile.
Funge da mezzo per raggiungere uno scopo, ma è scritto talmente male da non risultare neanche una macchietta.
Si può dire quasi lo stesso di una zingara francese che accompagnerà i due per buona parte del film, personaggio pressochè nullo dal punto di vista cinematografico, utilizzato (male) ai soli fini della trama.


Holmes e Watson vengono estremizzati in maniera davvero eccessiva, rischiando spesso di cadere nel ridicolo involontario e nel macchiettistico. Il rischio è sventato fortunatamente dall'impegno e dall'indubbia bravura dei due interpreti, ben calati nei personaggi, che riescono a salvare la situazione più volte.
Ma la sceneggiatura di sicuro non li aiuta.

E veniamo a quello che risulta, nel mio personale parere, il problema più grosso del film.
Le scene d'azione.
In questo seguito sono state aumentate in maniera esponenziale sia nel numero che nella dimensione.
Ma sono davvero troppe. Ogni 10/15 minuti ogni idea di trama viene abbandonata in favore di una qualche scena d'azione quasi sempre fine a se stessa, che sia un corpo a corpo con un cosacco, una sparatoria in treno, o una fuga in un bosco.
Inoltre in molte di queste scene viene fatto un uso smodato e decisamente improprio del ralenty, che stanca presto e rende interminabili e visivamente pacchiane le suddette scene.
Il tutto a scapito dell'elemento d'indagine che dovrebbe essere centrale in un film su Sherlock Holmes.
In questo caso il lavoro dell'investigatore si riduce ad un correre tra un luogo e l'altro tentando di ostacolare i piani di Moriarty, ma senza alcun tipo di dilemma. Tutto è già lì, pronto e servito.
Il che non può che essere un male.


Non è tutto da buttare ad ogni modo.
Come film d'intrattenimento funziona, non annoia (quasi) mai, fa passare le sue due ore di durata con relativa rapidità, ma decisamente non è il passo in avanti che ci si poteva aspettare viste le premesse.

Le musiche di Hans Zimmer sono davvero molto buone, ottima ispirazione ed ottima connessione con le immagini. Raffinatissima la citazione al Don Giovanni mozartiano.

Ci sono anche un paio di sequenze davvero azzeccate e d'impatto (aiutate molto dalla musica), ma non riescono decisamente a sollevare il livello del film dalla mediocrità in cui si adagia.

In conclusione, non è un film che consiglierei.
I fan del primo film probabilmente lo apprezzeranno almeno un po', ma sono convinto che anch'essi non potranno non esserne delusi in una qualche misura.
Di sicuro incasserà bene, ma il cinema d'intrattenimento americano ha bisogno di una boccata di ossigeno fresco, e questo film non fa altro che confermarlo


PS: collateralmente, Ritchie riesce ad allestire quella che probabilmente è la più pacchiana scena finale del Don Giovanni che si sia mai vista nella storia.

G.C.


giovedì 22 dicembre 2011

LE IDI DI MARZO

Sono sposato alla campagna, signor governatore




Il ritorno di George Clooney dietro la macchina da presa conferma senza dubbio il fatto che questo ruolo gli si addica ben più di quello di attore.
Adattando una piece teatrale, Clooney mette in scena una storia di illusioni, ideali spezzati, tradimenti che tiene fede al suo titolo.
Raccontando la campagna per le primarie democratiche nello stato dell'Ohio attraverso gli occhi dell'addetto stampa Steven Myers, il film riesce a colpire nel segno, seppur risultando a tratti eccessivamente programmatico.


Fin dalla primissima scena veniamo proiettati nel clima del film, fatto di macchinazioni e trucchi messi in pratica dallo staff di Mike Morris (George Clooney), in corsa per ottenere la nomination democratica alla presidenza degli stati uniti.
Di questo staff fa parte, tra gli elementi di punta, Steven Myers (Ryan Gosling), giovane ma già esperto addetto stampa, disposto a tutto per vincere, purchè "creda nella causa".

Pur peccando leggermente in lentezza nelle prime fasi, il film si prende il suo tempo per descrivere la situazione e far adattare il pubblico allo stile che si terrà lungo la narrazione. Poca azione, molte parole.
D'altronde è un film sulla politica, e cos'è la politica se non parole?
La sceneggiatura riesce in poche battute a descrivere con grande efficacia i personaggi e le loro caratteristiche fondamentali.
In questo è supportata dalla regia asciutta e pulita di Clooney, che dimostra, dopo Good Night and Good Luck, di saper maneggiare molto bene materiale di questo tipo, senza indulgere in virtuosismi o abbellimenti che mal si sarebbero abbinati con una narrazione di tal genere.


Quella che sembra inizialmente nulla più che una normale campagna elettorale, condotta comunque entro certi "limiti", degenera sempre più in uno scambio di colpi sotto la cintura tra le avverse parti, che porterà radicali mutamenti nel modo di vedere le cose da parte dei protagonisti di questa vicenda.
Timonieri che si troveranno in balia della tempesta degli eventi e dovranno lottare per riprendere la rotta.

In queste fasi la regia e la sceneggiatura concorrono molto bene nello sviare l'attenzione degli spettatori da quello che risulterà essere l'evento principe della campagna, portando il pubblico a credere che i fatti fondamentali siano altri.

Le dinamiche politiche sono descritte con grande accuratezza e verosimiglianza, rendendo sempre credibile quello che si vede.
Inoltre le ottime musiche di Alexandre Desplat aggiungono un substrato di tensione che aumenta ulteriormente il coinvolgimento del pubblico nella vicenda.


Tuttavia è impossibile non notare due buchi di sceneggiatura piuttosto grossi. Non ne scriverò perchè risulterebbero anticipazioni importanti sulla trama, ma invito a porre attenzione ad un paio di passaggi che risultano decisamente forzati.
Per carità, in un'ottica puramente cinematografica funziona tutto, ci si può passare sopra e farsi trascinare dal vortice degli eventi, ma riflettendoci, non si può fare a meno di evidenziarne la presenza.

Dal punto di vista tematico il film risulta ambivalente: coraggioso da una parte, programmatico e un po' ruffiano dall'altra.
Il coraggio di sicuro non manca, nel descrivere una disillusione nella politica che, dopo un mandato Obama, si respira negli stati uniti e nel mondo, dopo l'entusiasmo iniziale, e nel mettere in evidenza il potenziale corrosivo del potere, che non lascia immune nessuno.

Ma al contempo è ruffiano nel fare questo.
E' chiaro che, in questo momento, è facile girare un film "antipolitico", è facile fare presa sul pubblico con un messaggio così nettamente negativo.
Non ci si pone il problema di mediare, di mostrare qualcosa di buono, ma si descrive un sistema corrotto e immorale fino al midollo, in grado di sbriciolare ogni tipo di speranza.

Mi sarebbe piaciuta una descrizione più sfumata, meno dicotomica. Ma sono gusti personali.


Le idi di marzo rimane comunque un film più che buono, ben scritto, ben girato, ben interpretato (Gosling sugli scudi, confermandosi probabilmente il miglior attore della sua generazione, ma tutto il cast, composto da alcuni dei migliori caratteristi in attività, è in parte e convincente in ogni frangente.), che consiglio a tutti, con un potenziale grandissimo.
Probabilmente non espresso fino in fondo, ma dopo l'ultima scena, è impossibile rialzarsi dalla poltroncina del cinema senza sentire un piccolo nodo allo stomaco.

G.C.

mercoledì 7 dicembre 2011

MIDNIGHT IN PARIS

Uno sguardo avanti, sognando sempre il passato




Io Woody Allen lo adoro.
Adoro il modo in cui scrive, il modo in cui trasmette le sue insicurezze e nevrosi e le imprime sulla pellicola.
Adoro quel modo tutto suo con cui costruisce le inquadrature, quel suo modo di gestire i dialoghi con estrema naturalezza, quel ritmo che riesce a dare ad ogni conversazione.
Adoro le stranezze nascoste dei suoi film, i piccoli dettagli che rendono grottesco un contesto all'apparenza perfettamente normale.
E adoro soprattutto la sincerità e la trasparenza con cui si racconta attraverso le sue storie.

E tutto questo, in Midnight in Paris, c'è.


Devo ammettere che partivo con qualche perplessità nei confronti di questo suo ultimo lavoro.
In primo luogo perchè nei suoi ultimi film Allen mostrava una certa stanchezza, quasi che fare film fosse per lui diventato un peso, un compitino da svolgere una volta l'anno con puntualità per portare a casa i soldi.
In più, non pensavo che l'idea di uno scrittore che "viaggia nel tempo" passeggiando per Parigi durante la notte fosse particolarmente accattivante.

Beh, mi sbagliavo.
Allen affila le sue armi migliori e si getta con foga in un progetto in cui crede molto, e che evidentemente sente molto dal punto di vista personale.
A partire dal protagonista, uno sceneggiatore ormai stufo di scrivere filmacci Hollywoodiani e che si vuole gettare nella letteratura "seria", Allen mette in campo sè stesso.

Non in prima persona. La costante degli ultimi film del regista americano è la ricerca di un alter ego a cui affidare idealmente il testimone, perchè sia il nuovo Allen nei prossimi film di Allen.
E in questo caso trova in Owen Wilson un eccellente sè stesso.


La trama da la possibilità ad Allen di spaziare con la fantasia in lungo e in largo, andando a sviluppare temi a lui cari e ad affrontare il concetto stesso di "età dell'oro", centrale in questo lavoro.

Subito veniamo messi a contatto con un classico protagonista Alleniano: paranoico, ipocondriaco, stressato, indeciso. Un personaggio che si sente fuori dal suo tempo, fuori dalla società che abita, che sente di appartenere idealmente agli anni '20, la sua età dell'oro.
Addirittura si sente fuori dalla sua stessa vita, che porta avanti quasi per inerzia, non trovando vere motivazioni nè per cambiare, nè per continuare.
Per non farsi mancare nulla, la relazione che porta avanti con una ragazza troppo diversa da lui è ulteriormente peggiorata dai genitori di lei.

La presentazione dei personaggi è puramente Alleniana. Secca, senza fronzoli, costruita tramite rapidi scambi di battute e dialoghi brevi.
Ed è molto efficacie. Immediatamente si riesce ad entrare nell'ambiente del film, l'empatia con il protagonista, Gil, è immediata.

Tuttavia in questa fase si sente una certa pesantezza di fondo, una lentezza che, pur non essendo eccessiva, si sarebbe potuta evitare con qualche taglio in sede di montaggio.

Ma il film deve ancora decollare, e lo farà.


Da quando Gil inizia a "viaggiare nel tempo" passeggiando per Parigi a mezzanotte, Allen si scatena.
Riportato alla sua età dell'oro, gli anni '20 del novecento, Gil entra in contatto con tutte le più grandi personalità artistiche del periodo, da Hemingway a Fitzgerald, passando per Picasso, Dalì e mille altri.

Allen ha così la possibilità di sviluppare un discorso sul destino e al tempo stesso sul compito dell'artista nella società, un discorso sentito profondamente dal regista, che riversa in questo film tutta la sua esperienza e la sua cultura.
Inoltre è libero di forgiare con l'immaginazione questi giganti della cultura mondiale, ricreandoli a partire dalle loro opere, dalle loro biografie, e rendendoli personaggi fortemente caratteristici e caratterizzati.
Personaggi che lungo il film si riveleranno tutt'altro che perfetti, tutt'altro che consapevoli della propria grandezza, eccessivi, improbabili, esilaranti (il Dalì interpretato da Adrien Brody farà storia con la sua apparizione di soli 5 minuti).

Inoltre Allen gestisce il tutto con mano ferma e decisa, tipica del suo cinema. Senza fronzoli porta avanti con coerenza il film, fino alla "morale" e al probabilmente troppo prevedibile finale.


Il film è estremamente raffinato e profondamente colto.
Innumerevoli come ovvio i riferimenti all'ambiente culturale degli anni '20, che necessitano di essere quanto meno conosciuti alla lontana per non trovare il film troppo "esterno" allo spettatore.
Fotograficamente non spicca per originalità, ma riesce a rendere molto bene una vita notturna pulsante nella città delle luci.

Il divertimento non manca, l'intelligenza tantomeno.
Un piccolo appunto al doppiaggio italiano, che credo danneggi pesantemente alcune interpretazioni, su tutte quella di Marion Cotillard, in un ruolo centralissimo e punto di svolta del film
Nonostante non sia decisamente il suo capolavoro (la sua età dell'oro è ormai passata) ancora una volta mi devo trovare a dire "Io Woody Allen lo adoro"


G.C.



venerdì 4 novembre 2011

FAUST

Quello che non ti aspetti, fatichi a credere che sia reale.


Eccoci alla recensione più difficile che io abbia mai scritto, e che probabilmente scriverò per parecchio tempo.
Il trionfatore dell'ultimo festival di Venezia è un film assolutamente cinefilo, di un'elitarietà cui personalmente fatico a trovare paragoni nel cinema degli ultimi 10 anni.
Il regista, Alexander Sokurov, ha detto proprio al festival che lo ha premiato:

"Il film non ha bisogno dello spettatore, è lo spettatore che ha bisogno del film"

e quella che poteva apparire come una provocazione intellettual-snob si rivela invece una vera e propria dichiarazione di intenti e di poetica, realizzata appieno da questo film.
E' un film di un'autorialità totale questo Faust, denso, verboso, sporco, inquieto e inquietante, intellettuale, immaginifico, visionario, ma soprattutto estremamente complesso.


Diciamolo subito: questo film, almeno a livello di "trama", ha relativamente poco a che fare con l'opera di Goethe.
Ne riprende spunti, tematiche e basi, per poi distaccarsene con personalità e originalità, dando vita ad un discorso filmico in tutto separato dal corrispettivo cartaceo, come chiaramente indicato dall'iniziale "liberamente ispirato a".

Ma dicevo di un film assolutamente autoriale;
questo Faust lo è senza dubbio. A partire dalla costruzione visiva tutto concorre a trasmettere le idee che l'autore ci vuole comunicare, senza una sola concessione al pubblico, senza un solo momento che non sia necessario alla costruzione stilistico-ideale del film.
Volutamente tralascio la costruzione narrativa, perchè è evidente già da subito che quest'opera non vuole assolutamente raccontare una storia, non vuole portarci dal punto A al punto B attraverso un percorso di tipo espositivo, ma vuole farci percorrere un sentiero molto più impervio, fatto di concetti, immagini, parole, senza i quali il film non avrebbe alcun senso di esistere.
Mai come in questo caso la trama ha poca importanza, e il contenuto assume importanza totale.


Questo Faust non ci mostra l'ossessione di un uomo, la sua sete di conoscenza e desiderio di controllo, ma ci racconta la natura umana, sempre divisa tra regole e una moralità imposte dalla società, dalla religione, e la volontà di controllare tali regole, di creare un proprio corpus di valori e morale che possa sollevarci dalle nostre responsabilità e farci sentire in pace.

In questo senso il dottor (professor) Faust non viene rappresentato come uno scienziato ossessionato dalla conoscenza della natura e dal suo controllo, ma fin dall'inizio come un uomo che vuole comprendere l'animo umano, che vuole manipolarlo come fa con l'intestino e le interiora di un corpo proprio nella prima scena del film.
Questo Faust vive in un'oppressione continua, in un mondo che non gli appartiene, con un padre che lo vorrebbe veder dedicarsi alla medicina "concreta" e una società che non riesce a fornirgli neanche di che sopravvivere.
Gli ambienti opprimenti, la fotografia livida e slavata contribuiscono a mettere in scena un mondo lurido, sporco, deforme, parallelo evidente di quella che il regista russo vede essere la società moderna, fatta di sedicenti dottori, ladri, usurai, popolata da una quantità di folli che non sanno nemmeno di esserlo.
Una società composta da persone che non aspettano altro che di poter vendere la propria anima a qualcuno pur di raggiungere quelli che vedono come le proprie aspirazioni.

In questo ambiente si inserisce la figura del tentatore, colui che si insinua nella mente predisposta alla deformità di Faust (in questo senso sono notevolissime le deformazioni prospettiche messe in scena, a sottolineare ora la deformità mentale del professore, ora la  sua volontà di fuggire da situazioni che lo stanno schiacciando, ma da cui non c'è scampo) e lo trascina passo dopo passo fino all'inevitabile e celeberrimo contratto (che viene però firmato solo dopo un'ora e quaranta di film, su poco più di due ore totali).


Le tentazioni e le prove che Faust attraversa sono messe in scena con una forza espressiva notevolissima, e senza alcun tipo di timore nel mostrare anche le peggiori mostruosità e scene terribilmente forti e scabrose.
In questo anche il pubblico è trascinato nel vortice di Faust, anche noi vogliamo capire, vogliamo controllare gli eventi, vogliamo far sparire ciò che non approviamo e far durare a lungo ciò che desideriamo.
Ma è un gioco al massacro quello di Sokurov.

Mano a mano che il momento del fatale contratto si avvicina, ecco che ci viene mostrata la sofferenza di chi prima di Faust ha ceduto alle lusinghe del tentatore, esplicitate in una delle scene più orripilanti che mi sia mai capitato di vedere.

La volontà di Faust di far procedere il mondo secondo le sue regole, puerili imitazioni delle regole divine, è resa ancor più forte dallo scontro tra uomo e natura che regna su tutto il film.
Una natura che imperversa, invadendo gli spazi e l'anima dell'uomo, portandolo dove esso non vuole andare, scontrandosi con lui e restandogli incomprensibile ed incontrollabile, anche laddove egli creda di averla dominata completamente con la sua scienza.


E dopo aver raggiunto il suo obiettivo l'uomo (nella persona di Faust) non può fermarsi, non può godere di ciò che ha conseguito, ma, legato alla sua inevitabile natura, non può far altro che proseguire, continuare a crearsi nuovi ostacoli, nuove tentazioni a cui trovare soddisfazione, continuare ad andare "oltre" ancora ed ancora, senza possibilità di raggiungere la pace.
In questo senso Sokurov sembra suggerire che il tentatore non sia un demone, non sia un agente del male, ma non sia altro che la doppiezza della natura umana, portata per natura a combattersi e a spingersi sempre più lungo il baratro, ancora e ancora fino alla fine di tutto.

Il film non può e non deve essere visto da tutti.
Non è un film normale. E' più una sfida che il regista ci pone.
Una tentazione a seguirlo nel suo percorso filosofico ed entrare con lui nei meandri della natura umana.
E inquadrando uno specchio come prima immagine sembra volerci dire che non stiamo guardando qualcosa di esterno, ma che in verità non stiamo guardando altro che tutti noi.

Un film forte e difficile, che non concede nulla e non si lascia guardare dal pubblico occasionale, ma spinge la sua ricerca oltre il piano cinematografico come solo i capolavori sanno fare.
Ho detto capolavoro? Forse sì, forse no.

Lascio ad altri le definizioni. Io personalmente, fatico a credere che sia vero.

G.C.


lunedì 31 ottobre 2011

LE AVVENTURE DI TIN TIN - il segreto dell'unicorno

Mr. Spielberg, un po' ci era mancato in questi anni!


A 28 anni da quando scoprì per la prima volta il personaggio di Hergè, Steven Spielberg riesce finalmente a realizzare il suo sogno di portarlo al cinema (con il supporto produttivo di Peter Jackson e della sua Weta).
In questi 28 anni tante cose sono successe tanto nel mondo del cinema, nella tecnica, nei linguaggi, quanto nella carriera di Spielberg.
Dopo aver sfornato film di alto, altissimo livello per 30 anni, negli ultimi 10 lo zio Steven si era un po' adagiato, dirigendo film quasi sempre poco convincenti, banalotti, non degni della sua carriera precedente, diciamo (pur con qualche eccezione, come Minority Report).
Bene, con questo Tin Tin ci siamo, Spielberg è tornato!


Premetto di non essere assolutamente un fan di vecchia data del fumetto di Hergè.
Anzi a dire il vero non l'ho proprio mai letto, nè guardavo la serie animata in televisione; quindi affronto il discorso come chi è andato al cinema non per vedere l'eroe della sua infanzia, ma come chi ci è andato per vedere un bel film d'avventura vecchio stampo, diretto dal padre fondatore di questo genere.

E non posso dire di essere meno che soddisfatto!
Uno Spielberg finalmente tornato vicino ai suoi massimi riesce a dare vita ad un film sincero, divertente, tecnicamente impeccabile e, importantissimo, intelligente.
Inoltre si può vedere per la prima volta una motion capture finalmente matura e pronta a mostrare tutte le proprie potenzialità espressive e narrative. 

Ma vediamo di approfondire almeno un po':


Cominciamo col dire che il film parte a rilento, con una certa macchinosità.
Questo è sicuramente da imputarsi in maggior parte alla necessità di introdurre da zero personaggi e contesti del tutto ignoti alla maggior parte del grande pubblico (con me in testa).
La fase iniziale in quella che potrebbe essere Parigi presenta una certa dose di didascalismo ed artificiosità (per la serie, un modellino di nave cade e si rompe, il personaggio: "oh no, è caduta e si è rotta"...bravo, lo vedevo anche da me!), che fa un po' storcere il naso.
Mi rendo conto che sia il modo più rapido e diretto per introdurre agli eventi successivi e porre le basi a quanto seguirà, ma avrei preferito maggior sottigliezza e finezza.
 
Per fortuna presto le cose migliorano.
Da quando ci si allontana dalla città la pellicola (mai come in questo caso il termine è improprio) migliora continuamente, il ritmo si fa più sostenuto, le situazioni più interessanti e, soprattutto, si introduce un personaggio riuscitissimo: il capitano Haddock.
Istrionico e divertentente capitano di nave dedito all'alcool e all'autocommiserazione, sarà lui il protagonista dei momenti più divertenti e riusciti del film (lui e il suo antenato).

Ma il vero salto di qualità lo si ha a partire da circa metà film, a partire da una scena di battaglia navale che si interseca alla narrazione presente in un mix di ispirazione registica, sceneggiativa e musicale che ci ricorda perchè Steven Spielberg è il regista più conosciuto al mondo.
Da lì in poi è un susseguirsi di azione e scoperte senza sosta, senza respiro, senza un attimo di stanca, un vortice che ci trascina  con decisione fino al finale (apertissimo in vista di eventuali sequel).

Il tutto senza farsi prendere la mano e scivolare nello stereotipo, nel banale, e mantenendo il quoziente intellettivo del film superiore alla media a cui ci aveva abituati il genere negli ultimi anni.

I meriti di questo fortunato mix sono da dividere su più elementi: sceneggiatura, regia, tecnica digitale, musica. Non necessariamente in quest'ordine.


La sceneggiatura, ad opera di un trio di talentuosissimi scrittori e registi inglesi (Edgar Wright, Steven Moffat e Joe Cornish), ha il grandissimo merito di restituire finalmente a Spielberg un materiale narrativo accattivante e con il giusto bilanciamento tra humor, azione, ritmo e quel pizzico di mistero assolutamente necessari per un film di questo tipo.
I dialoghi sono brillanti quanto serve (soprattutto a partire dall'entrata in scena di Haddock), i personaggi principali sono ben scritti, introdotti ed approfonditi nella loro psicologia (senza esagerare, è pur sempre un film d'azione per ragazzi!), e il cattivo della situazione funziona molto bene.
Inoltre il terzetto inglese riesce a mantenere una coerenza narrativa notevole all'interno di un materiale che prestava sicuramente il fianco ad eventuali esagerazioni e smarrimenti logici.
Inoltre hanno il coraggio di affrontare con leggerezza un tema delicato come quello dell'alcolismo del capitano Haddock, portato avanti, seppur in un ottica da film per ragazzi, con logica e intelligenza. 
Non tutto è perfetto: come già detto alcuni personaggi secondari non funzionano al meglio, alcune (poche) gag sono poco efficaci, un po' forzate, e soprattutto all'inizio faticano ad evitare didascalismo e verbosità.


Sopra tale script, Spielberg costruisce con maestria un lavoro di straordinaria perizia tecnica e con belle idee registiche; 
una cinepresa mai ferma si muove continuamente attraverso gli ambienti digitali, con inquadrature e movimenti che mostrano una padronanza del genere di prim'ordine. 
Caratteristica di questo film è la presenza di scene d'azione quanto mai fluide, continue, raramente composte tramite il montaggio, ma quasi sempre costruite in piano sequenza, portandoci dentro l'azione come poche volte prima d'ora. 
In questo sfrutta al 100% l'assenza di limiti fisici che comporta la tecnica della motion capture, dando modo di costruire carrellate che mai avremmo potuto vedere in un film live action.
Il massimo viene raggiunto dall'ispiratissimo momento della già citata battaglia navale, dove è aiutato anche da un montaggio (del collaboratore di sempre Michael Kahn) che balza da un piano temporale all'altro con grazia e pulizia notevoli, sfruttando il minimo oggetto, viso, per rendere la propria presenza meno invasiva possibile.
Nonostante l'attenzione maniacale che ripone nell'azione, il regista non dimentica mai i personaggi, costruendo tutto intorno a loro, gestendone i movimenti, i rapporti, in modo molto buono, soffermandosi molto spesso in (dettagliatissimi) primi piani volti a sottolineare i loro sentimenti e sensazioni, in modo da non farci mai guardare il film come corpi esterni, ma immegendoci nella trama e nel racconto.


Una menzione d'onore va agli attori;
il performance capture è un'evoluzione recentissima che permette di trasportare appieno una performance attoriale in un personaggio digitale, con tutte le sue sfumature.
E gli attori di questo film sono molto molto bravi. Riescono a conferire una credibilità mai raggiunta per personaggi digitali, facendo sì che dopo pochi minuti la tecnica (perfetta) passi in secondo piano, lasciandoci con l'impressione di vedere vivere sullo schermo personaggi "realmente fantastici".
Ed è un grande successo.
Su tutti domina Andy Serkis (Gollum nel signore degli anelli, ormai vero e proprio guru della motion capture) nei panni di Haddock, ma anche il cattivo Daniel Craig e il protagonista Jamie Bell offrono una performance di livello.
Niente da oscar, sia chiaro, ma assolutamente degne e riuscite.


Altro elemento fondamentale è la musica di John Williams, forse il più grande compositore per il cinema della storia, che commentano con eleganza le immagini, aumentandone la forza, allargando il respiro delle scene più ampie, e risultando garbate e discrete laddove sia necessario. Un lavoro di prim'ordine.

Tanti, tantissimi, i rimandi al cinema classico di Spielberg, da Indiana Jones (film di cui questo Tin Tin condivide lo spirito di avventura e intrattenimento) a Jurassic Park, attraversando tutta la carriera del regista.
Per gli estimatori sono molti i particolari che fanno brillare gli occhi.

E non dimentichiamo Milou, il cane di Tin Tin, personaggio questo interamente digitale ma che riesce a monopolizzare spesso l'attenzione, divertente, coinvolgente, emozionante...
un personaggio riuscitissimo e gestito benissimo.


Insomma, se si cerca un bel film con cui passare due ore divertenti e appassionanti, spensierate ma senza dimenticare il cervello a casa, ritornando con l'animo ragazzi per qualche tempo, come Spielberg ha sempre voluto che il suo pubblico facesse, è questo il film.
Spielberg è tornato, speriamo non riparta.

G.C.



sabato 15 ottobre 2011

THIS MUST BE THE PLACE

Grazie, è stato un un onore suonare con te 


Il nuovo film di Paolo Sorrentino, la sua prima produzione internazionale, è sicuramente un film da vedere, ma non il capolavoro tanto sbandierato in ogni dove.
I punti più deboli di questo lavoro sono da ricercare nella fase di sceneggiatura, curata dallo stesso regista, mentre i suoi punti forti stanno indubbiamente nella messa in scena, di grande impatto, che dimostra come il regista napoletano, già tra i migliori in ambito nazionale, sia un elemento molto interessante anche su palcoscenici stranieri.


Protagonista del film è uno Sean Penn in stato di grazia, nonostante, o forse grazie a, un make up che lo rende quasi irriconoscibile.
Nei panni di Cheyenne, rockstar in pensione che passa le sue giornate nella noia totale (che lui confonde con depressione) tra una villa gigantesca, ma vuota, e una piccola casa nella periferia di Dublino in cui vive una ragazza di cui vorrebbe prendersi cura, Penn da il suo massimo. 
Un'interpretazione ai limiti della perfezione, senza mai andare sopra le righe, nonostante un personaggio che ricorda molto Alice Cooper e che si presta quindi molto ad un tale rischio, ma anzi gestendone soprattutto le sfumature e i dettagli meno evidenti per costruire un personaggio credibile e concreto.

Purtroppo il doppiaggio italiano sembra prendersi qualche libertà di troppo, rischiando di far apparire macchiettistiche scene che non dovrebbero esserlo.
Il ruolo gli è stato scritto su misura, e questo si vede. 
Regge tutto il film sulle sue spalle con disinvoltura e naturalezza da grandissimo quale è.
Un Oscar non sarebbe esagerato.


Se Penn è il punto fermo del film, l'elemento di consistenza e coerenza qualitativa, purtroppo altri elementi non riescono a pareggiarne la qualità.
L'intero film è molto altalenante: a momenti geniali ed ispiratissimi alterna alti decisamente fuori tono che non riescono ad amalgamarsi bene con quanto costruito prima e con quanto si vedrà dopo;
esemplificativa in questo senso una scena di monologo in un sotterraneo, uno sfogo del protagonista che non trova una sua collocazione razionale in quel momento e in quel modo di manifestarsi, frutto di scelte di scrittura e montaggio non delle migliori.
Ma pare proprio che l'assenza di costanza sia la costante del film.


Sorrentino è molto ispirato, si capisce che sente profondamente il film che sta realizzando, e mette in mostra un'abilità tecnica notevole, coronata da lunghi e complessi piano sequenza, unitamente a picchi di lirismo visivo che non passano inosservati: un funerale, un bar, una piscina gonfiabile, un pistacchio gigante (!!) danno modo al regista italiano di spaziare con lo sguardo della cinepresa anche al di la dell'immagine rappresentata, processo aiutato anche dalle musiche, che creano una serie di atmosfere mutevoli, che rappresentano ottimamente i diversi momenti narrativi di cui è composto il film.

Tuttavia, seppur la qualità sia molto elevata, anche la regia non può essere esente da critiche. In qualche frangente, fortunatamente pochi, Sorrentino mostra un eccessivo autocompiacimento, e una ricerca ossessiva della soluzione ad effetto o del colpo "d'autore", risultando però poco sostanzioso e lezioso; 
basti pensare ad un'inquadratura di 5 minuti su un gruppo che suona, senza che questa contribuisca in alcun modo alla narrazione o all'atmosfera, avendo come unico risultato quello di annoiare.


Qualche problema in più lo presenta la sceneggiatura.
Nonostante complessivamente il lavoro sia di buon livello, presta il fianco a qualche critica di troppo: i personaggi vengono introdotti in modo troppo stereotipato, quasi rozzo; la rockstar ormai finita presa in giro dal mondo, il ragazzo sfigato con camicia e cravatta...la lista è lunga. 
Fortunatamente il resto del film contribuisce ad approfondire alcuni personaggi, e fa dimenticare tale problema, che comunque c'è. Un po' di finezza in più non avrebbe guastato.
In generale si moraleggia troppo, con aforismi spesso poco sensati o banali, messi lì come se fossero verità mai intuite da nessuno.

E purtroppo  non si può passare sopra al fatto che diversi ottimi spunti vengano buttati lì e poi abbandonati, come nulla fosse successo. Quasi che l'interesse fosse più costruire una scena ad effetto che fornire ulteriori elementi narrativi o approfondire la psicologia dei personaggi.


Finchè il film costruisce scene per alimentare la narrazione, tutto bene, tutto anzi molto bene.
Ma quando subentra l'autocompiacimento si perde. 
Addirittura Sorrentino arriva a giocare a fare il Malick (per sua fortuna molto brevemente) col solo risultato di risultare incomprensibile.
Il finale, inoltre, potrebbe a qualcuno apparire fin troppo buonista, facilone e ruffianello.


Nonostate tutto, però, il film è più che buono. 
Tanti begli aspetti, visivamente di alto livello, con momenti di ispirazione chiaramente pittorica, comuque coinvolgente, mai noioso, una trama non scontata e non banale, un ottimo lavoro da parte di tutto il cast lo rendono comunque un lavoro di notevole interesse che,  a mio parere, andrebbe di sicuro guardato.

G.C.

martedì 11 ottobre 2011

DRIVE

Tu che cosa fai? Guido.


Forte del premio per la miglior regia ottenuto all'ultimo festival di Cannes (quello vinto da quel capolavoro di The Tree of Life per intenderci) arriva nelle sale italiane l'ultimo lavoro del regista danese Nicolas Winding Refn, senza dubbio uno dei registi più interessanti della nuova generazione.

Nonostante sia stato presentato e pubblicizzato da un'improvvida campagna marketing come un film d'azione ad alto tasso adrenalinico, quello che ci si trova davanti è un film indubbiamente autoriale, in grado di sollevarsi al di sopra della media dei film odierni.


Riprendendo stilemi tipici del cinema americano di genere degli ultimi 30 anni, Refn mette in scena un thriller metropolitano molto personale e a suo modo atipico.
In una Los Angeles splendidamente resa da una fotografia che sfrutta al meglio le cineprese digitali di ultima concezione, si muove il protagonista senza passato e senza nome. 
Di giorno meccanico e stuntman per il cinema, di notte esperto autista (driver) per ladri e rapinatori.
Un professionista che non si fa coinvolgere in ciò che fa, organizzato e schematico:

Dammi ora e luogo e ti do cinque minuti, qualunque cosa accada in quei 5 minuti ci penso io, ma ti avverto: qualunque cosa accada un minuto prima e un minuto dopo, te la cavi da solo.

Uno strumento perfetto ed efficiente, quale la macchina che guida, nelle mani di chiunque ne voglia fare uso.


I punti di forza di questo film sono senza dubbio la scrittura dei personaggi e le loro interpretazioni, al pari della regia di Refn.
In un racconto che potrebbe prestare facilmente il fianco a cadute di stile, banalizzazioni, stereotipazioni assolute dei personaggi e degli eventi, una sceneggiatura di ferro riesce a porre le basi ad una struttura filmica di grande impatto, che trova compimento in una messa in scena ai limiti della perfezione, che giustifica ampiamente il premio assegnato dalla giuria del festival francese.

Come precedentemente accennato, il film si rifà fortemente al cinema di genere degli ultimi 30 anni, ma non sa di già visto, affatto.
Se i richiami ai grandi maestri sono tanti, il film ha anche qualcosa di molto personale da dire. E lo dice tramite il silenzio.


Sì perchè si parla pochissimo in questo "Drive", si parla poco e ci si guarda molto, ci si guarda e si cerca di dire ciò che a parole non si riesce o non si può dire. 
Il driver cerca di nascondere la sua anima, ma gliela si legge in faccia. E quando esplode tutta la sua rabbia in una violenza difficile da sostenere anche dallo spettatore più smaliziato, non ci si sorprende, perchè era già tutta lì, in quegli occhi e in quel volto senza espressioni che è quasi una maschera per tenere il mondo lontano da sè.

E' un film che vive di opposti e di ossimori, di improvvise manifestazioni d'amore estremo e di estrema violenza, talvolta nell'arco di pochi secondi.
La continua ricerca di stabilità ed equilibrio crea un atmosfera di precarietà che non permette di accettare a cuor leggero ciò che avviene e ciò che avverrà. Noi vogliamo l'equilibrio, lo bramiamo come lo bramano i personaggi del film, loro malgrado.
Ma non è possibile ci dice Refn, non è possibile perchè il passato ritorna, e la natura sopita si risveglia, andando a chiudere una serie di cerchi continuamente più stretti, fino al collasso nel centro, laddove tutto si chiude e si realizza nell'unico modo in cui si può realizzare.
Per poi ricominciare daccapo.


Refn è grandioso nel gestire il tutto, con mano ferma costruisce fin dai primi minuti una tensione che non si rilascia mai, se non in un unica, emblematica, scena, in cui il driver ci viene mostrato per ciò che vorrebbe essere, quasi un giardino dell'eden in terra, per lui.
Grande abilità dimostra anche nel saper gestire i tempi e i silenzi, e nel comprendere e valorizzare la psicologia dei personaggi e le interpretazioni degli attori.
Il regista mostra un estro visivo davvero notevole, uno stile sopraffino nella scelta delle inquadrature, degli angoli di ripresa, dei giochi di luce, e soprattutto nel rappresentare la violenza, rendendola reale, dura, di quelle che rimangono più per il loro contenuto psicologico che non per il semplice livello di emoglobina in scena (comunque notevole), mostrandosi allo stesso tempo un solido realizzatore anche di scene d'azione, seppur esse non siano il fulcro del film.


Gli attori allo stesso modo sono grandiosi. Tutti.
Spicca ovviamente Ryan Gosling, uno dei migliori attori in attività, in grado di conferire profondità e realtà ad un personaggio sulla carta difficilissimo da rendere al meglio. Recitare con gli occhi.
E' questo che fa Gosling; non ha bisogno di parole, e d'altronde non aggiungerebbero nulla.
Ogni espressione, ogni sguardo, ogni movimento del driver è perfetto, fa parte di un lavoro di immedesimazione sopraffino, che raggiunge livelli quasi inquietanti durante le esplosioni di violenza del driver, che Gosling rende assolutamente naturali e quasi inevitabili.

Allo stesso modo eccezionale Carey Mulligan in un ruolo da comprimaria che ricopre in modo eccellente, dando al suo personaggio la giusta quantità di durezza e debolezza, di forza e fragilità, costruendo anche in questo caso una persona vera, non un semplice corpo estraneo che si muove sullo schermo


Le musiche a commento delle immagini sono un mix di elettronica-pop-rock che contribuisce alla creazione dell'atmosfera al meglio, esattamente come dovrebbe fare ogni buona colonna sonora: sparendo nelle immagini e diventando un tutt'uno con esse.
E la già citata fotografia produce alcune delle migliori scene notturne che riesca a ricordare.

Non è un film perfetto, ha qualche piccola caduta di stile qua e là, si perde un poco per strada in alcuni frangenti, ma sono cose che passano in secondo piano.
Quando si ha la possibilità di gustare un lavoro di questo livello, poco importa la perfezione.


G.C.

mercoledì 5 ottobre 2011

ATTACK THE BLOCK

Quando Steven Spielberg incontra l’outskirt di Londra


Tutti (o quasi) da bambini o ragazzini avranno visto gli splendidi film degli anni ’80 con protagonisti un gruppo di ragazzini in cerca di avventure, “I goonies” su tutti.
E allo stesso modo tutti, prima o poi, avranno visto qualche film di alieni, invasori (alla “Indipendence Day”) o amici (“Et”,”Incontri ravvicinati del terzo tipo”), o ancora mostri assassini senza pietà (“Alien”).

Bene, questo gioiellino inglese del 2011 unisce le cose in un modo estremamente originale ed accattivante, dando una lettura personalissima dei generi di riferimento (appunto l’avventura e l’alien movie).
La trama è riassumibile in pochissime parole: alieni mangia uomini atterrano (cadono sarebbe più corretto) in un quartiere dei sobborghi di Londra, dei ragazzini li affronteranno con ogni mezzo a loro disposizione.


Con una trama del genere ci si potrebbe giustamente chiedere "dove sta il bello, perché gioiellino?"
Bene, il tutto è dovuto ad una costruzione dell’ambientazione e dei protagonisti assolutamente innovativa.
Scordatevi i bravi ragazzini che girano in bicicletta nelle deserte strade americane seguendo la propria fantasia; qui ci troviamo davanti a un gruppo di 15enni che rapinano la gente, fumano erba, sfuggono alla polizia…bravi ragazzi che sono dovuti crescere presto e con regole proprie per poter sopravvivere nel Block, l’enorme caseggiato popolare in cui tutto ha luogo, dove anche i bambini di 9 anni devono iniziare a darsi un nome e crearsi una reputazione per poter tirare avanti.
Bene, quando arrivano gli alieni cosa si fa?
Considerato che la polizia ci vuole arrestare, nessuno ci crede, il boss del quartiere ci vuole fare fuori?
Ci si arma di spade, mazze da baseball e coltelli e li si va a prendere a calci!!

  
In questo i protagonisti non risultano mai delle macchiette, delle parodie, ma sono sempre credibili nelle loro azioni e reazioni, grazie ad una sceneggiatura che costruisce alla perfezione i caratteri, senza però tralasciare l’aspetto dell’azione, realizzata anch’essa con grande maestria e resa al meglio da una regia dalla buona ispirazione e perfettamente calibrata sul lavoro che deve svolgere.
A completamento del tutto, per non lasciare nulla di non fatto, non manca un livello di critica al moralismo e all'ipocrisia che girano intorno a questi "mondi poveri nei mondi ricchi". Senza esagerare e mantenendo il proprio stile, ma queste piccolezze non fanno mai male.
Da segnarsi lo scambio di battute: 
"Il mio fidanzato aiuta i bambini in Africa, è volontario della croce rossa"

"Oh davvero? Non può aiutare i bambini Inglesi? Non è abbastanza esotico eh? Non ci si fa una bella abbronzatura"

L’autore (regista e sceneggiatore all'esordio!) del film è cresciuto nei sobborghi in cui si svolge il film, e questo si vede molto. In positivo.
I giovani attori stupiscono, considerata appunto la giovane età, e rendono molto molto bene i loro ruoli, essendo d’altronde non professionisti anch’essi originari del Block.



Il reparto tecnico è di ottimo livello, effetti speciali molto ben realizzati, con un tocco old style che piacerà molto ai nostalgici di quando i mostri non erano realizzati in CGI, fotografia “cool” come impongono le mode attuali, montaggio serrato a mantenere alta l’attenzione e colonna sonora perfetta come commento agli eventi che ci vengono mostrati.
Il film è stato realizzato a basso budget, ma non lo da per nulla a vedere.

E vogliamo parlare degli alieni? A qualcuno faranno anche storcere il naso, ma dopo esseri sempre simili tra loro, anche in questo aspetto si trova una bella dose di innovazione, una bella novità che rende il tutto ancora più interessante, evitando ogni rischio di apparire stantio.


Un film fresco e divertente, con una bella dose di azione e punte di horror che consiglio a chiunque voglia provare qualcosa di a suo modo nuovo e diverso da tutto quanto abbiate visto prima.
Pur non essendo nulla di nuovo.

 G.C.


PS: Il film è inedito in Italia e può essere reperito in lingua originale con sottotitoli italiani. Ma assolutamente è da vedere in tal modo, l’accento dei personaggi lo impone!

Attack the block su IMDB

giovedì 22 settembre 2011

INTRODUZIONE

In questo blog, si ha intenzione di parlare di cinema.
Nessuna postilla, niente fronzoli; cinema nudo e crudo.

Chi mi conosce sa che è la mia più grande passione, e chi non mi conosce spero lo potrà dedurre da questo (tentativo di) blog.
Posterò qui le mie recensioni a tutti (o meglio quasi tutti) i film che vedrò, vecchi, nuovi, antichi, presenti e futuri, e commenterò eventuali grandi novità o eventi annuali (la cerimonia degli Oscar ad esempio), sperando che qualcuno legga e riesca ad appassionarsi quanto me a quello che la settima arte ci può dare, che possibilmente si senta spinto a prendere visione di quanto recensito, e che commenti questi scritti, dando la sua opinione.
Sperando che il mio scarso stile possa migliorarsi col tempo, si alzi il sipario!